Un materasso rosso

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Premessa

E’ agosto e il rifugio di Annatal vicino ad Ortisei è gremito di gente. Ogni cosa qui, nonostante la folla, è sempre curatissima e in ordine. E’ un luogo ideale per i bambini e poiché si raggiunge facilmente dal paese è molto frequentato.
I proprietari hanno scelto il colore rosso per gli arredi esterni: sedie a sdraio, ombrelloni, poltroncine, cavalli di gomma gonfiabili sul verde del prato rafforzano la sensazione che nulla sia fuori posto.
Tra le innumerevoli possibilità di gioco che Annatal offre ai suoi piccoli ospiti, c’è un lungo scivolo appoggiato ad una pendenza che termina su un grande materasso rosso. Questo è di gran lunga il gioco che i bambini preferiscono.

Gli scalini per risalire in cima sono levigati ceppi d’albero di diversa dimensione e altezza a lato dei quali vi è posto un corrimano di corda in caso non ci si fidi a sufficienza del proprio equilibrio.
Appeso all’abete che ombreggia l’intera struttura c’è un cartello che invita a togliersi le scarpe prima di scivolare fino al materasso. Il mucchio di scarpe vicino all’imboccatura dello scivolo (spaiate, slacciate, slacciate solo a metà, capovolte o ben affiancate) ci fornisce immediatamente la misura di quanto questo gioco sia amato e dà la possibilità ad un osservatore attento di indovinare in anticipo quali dinamiche potrebbero instaurarsi tra i bambini coinvolti: se sono presenti scarpe grandi il gioco sarà vivace, creativo e imprevedibile; se al contrario si troveranno solo numeri piccoli il gioco sarà più metodico, ordinato e tranquillo.

Con mio figlio sono stata ad Annatal in molte occasioni durante il nostro soggiorno in montagna e ho potuto fare molte osservazioni intorno ai giochi che lo scivolo e il materasso riescono a creare di volta in volta. Tre sono le tematiche che mi piacerebbe condividere. Due di queste riguardano la relazione e sono la pratica della lotta e la tutela genitoriale. La terza è una riflessione sulla capacità di fornire i nostri giardini di strutture intelligenti che sappiano assecondare con semplicità la complessità del gioco all’aria aperta.
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#1 “Il gioco della lotta”

Giuseppe ha sette anni, Lorenzo dieci e Giulio due e mezzo. Intorno a loro almeno altri otto bambini di età compresa tra i tre e i cinque anni si arrampicano e scivolano arrivando veloci sul materasso rosso.
I genitori non sono presenti, si godono l’estate sugli sdrai rossi nel verde dell’erba; ognuno usufruisce felicemente della libertà concessa, come è giusto che sia.
Io resto in disparte, seduta su un tronco d’albero.
Tutto inizia con un’acrobazia: Giuseppe, che ha i calzettoni lunghi fino al ginocchio, riesce, rispetto a chi ha la gamba nuda, a scivolare molto più veloce e in una discesa a capofitto compie, atterrando sul materasso, una capriola che lo porta letteralmente ad arrotolarsi a Lorenzo, che per evitare l’impatto si avvinghia a lui con braccia e gambe assecondando la spinta a rotolare.
I due, che non si conoscevano prima di oggi, precipitano dal materasso e iniziano a ridere a crepapelle. La loro allegria è contagiosa. Giulio che ha osservato la scena restando in piedi al bordo del materasso, fremendo per l’eccitazione, intuisce immediatamente che il gioco più divertente non è più quello di scivolare, ma di lottare sopra al morbido ring rosso di gomma piuma.
Non appena Lorenzo e Giuseppe risalgono sul materasso, Giulio urlando corre loro incontro e gli si butta contro per cercare di farli capitombolare.
Lorenzo schiva Giulio, mentre Giuseppe lo spinge indietro facendolo cadere pancia all’aria. Giulio scoppia a ridere e senza battere ciglio recupera la posizione eretta. Nel frattempo Giuseppe si guarda intorno alla ricerca di un severo sguardo materno, ma non trovando nessun rimprovero ad attenderlo veloce insegue Lorenzo che è già in cima alle scale.
Giulio non sale, ma attende i due in fondo allo scivolo, anzi, per essere sicuro di essere travolto da quei corpi giocosi e vitali si siede esattamente a fine discesa, di schiena, con le mani e le braccia strette ai bordi di metallo, e lo sguardo eccitato gettato continuamente indietro per prevedere quanto accadrà in un misto di paura e adrenalina.
Lorenzo gli grida di “levarsi” da lì, ma dato che Giulio per tutta risposta si mette a ridere, Lorenzo intraprende la discesa: arriva quasi a toccare la schiena di Giulio, frena, si alza di scatto lo scavalca (è molto più alto di lui), ma Giulio a tradimento gli salta alle spalle facendolo cadere a terra. Nel frattempo scivola anche Giuseppe che non riserva ai due la stessa cortesia di Lorenzo e gettandosi addosso ad entrambi fa iniziare una vera e propria lotta.
Si avvinghiano, si spingono, si gettano a terra in un susseguirsi di urla, risate e ringhiolii.
Il gioco continua per circa trenta minuti. Giulio tra una pausa e l’altra, tra una discesa e l’altra, tenta di presentarsi: “Io Zulio”, dice, e una volta afferrato il nome del loro intrepido compagno di giochi i tre, in mezzo alla schiera degli altri bambini che continuano a scivolare cercando di evitare quei corpi avvinghiati rotolanti e imprevedibili, si cercano chiamandosi, e al grido di “Geronimo!” danno vita ad una nuova sessione di lotta libera.
Lorenzo e Giuseppe compiono le più elaborate acrobazie lanciandosi dallo scivolo, mentre Giulio li attende sul materasso.


Antonio ha quattro anni, suo fratello Giorgio tre. Giorgio non ne vuole saperne di lanciarsi giù dallo scivolo. Ha paura. La nonna e il padre cercano di incoraggiarlo, di spronarlo, ma Giorgio non vuole scivolare. I parenti si arrendono. Giorgio si siede accanto a me, in silenzio. Lui vuole guardare, guardare il fratello maggiore che intrepido si lascia divertire dalla velocità. Non ci sono molti bambini oggi pomeriggio ad Annatal, il cielo è coperto e un’aria frizzante fa dondolare i rami curvi degli abeti. Basta poco per far desistere da una passeggiata il turismo occasionale della montagna.
Antonio ha incontrato Giulio per il quale ormai il materasso è molto più attraente dello scivolo. Dopo qualche discesa a pancia in giù, seduto e sdraiato decide che è ora di lottare perciò aspetta Antonio alla fine della discesa. Antonio sembra infastidito dal fatto che Giulio si opponga all’impulso eccitante della velocità arrestando la sua corsa prima del salto finale. Lo evita per tre volte, gli urla di spostarsi. Giulio ride e appena riesce lo afferra per una gamba o per un braccio e se la presa è abbastanza salda, lo fa pure cadere sul materasso. Antonio lo spinge via, lo allontana riservandogli inizialmente sguardi molto severi. Il gioco è comunque iniziato. Antonio ora scivola con l’intento di saltare addosso a Giulio e di lottare contro di lui. Ormai trascorrono più tempo sul materasso che non sullo scivolo. La lotta è molto vivace. Urla, risate, ringhiolii.
Il gioco prosegue per circa quaranta minuti. Giorgio rimane accanto a me, guarda i due lottatori e ride. Ad un tratto si alza, sale le scale e molto lentamente si lascia andare sullo scivolo. Rimane in piedi sul materasso e osserva Giulio e Antonio. Si risiede accanto a me.

La lotta greco-romana

Nell’antica Grecia la lotta era considerata un esercizio indispensabile per il rafforzamento del fisico e del carattere dei fanciulli. Le forme di lotta erano diverse e contemplavano modi di sottomissione dell’avversario a seconda della situazione. La lotta in piedi consisteva nel rovesciare il contendente e veniva detta katazletikè che significa letteralmente “arte di gettare a terra”. Le fasi al suolo comprendevano torsioni delle articolazioni e strangolamenti. Nella tecnica dell’ortophalis era consentito l’uso di sgambetti e il gioco di gambe allo scopo di gettare l’avversario a terra tre volte per ottenere vittoria; nella kylissis il combattimento proseguiva al suolo finché uno dei due lottatori non sottometteva l’altro non permettendogli più di muoversi e la competizione avveniva per lo più in fossati pieni di sabbia; nell’acrochirismos i combattenti incrociavano le dita in una lotta palmo a palmo e mediante l’uso delle sole dita dovevano costringere l’avversario alla resa torcendogli le mani.
La correttezza e il rispetto tra i contendenti erano alla base dei diversi stili.
La lotta inoltre è una pratica antichissima presente in tutte le culture del mondo.

 

L’arte del combattimento nel gioco di un bambino

Guardando Giulio, Lorenzo, Giuseppe e Antonio combattere mi rendo conto che stanno mettendo in atto, in modo inconsapevole, molte delle mosse che avremmo potuto osservare in un ginnasio greco. La forza e la bellezza delle loro movenze e l’energia che i loro corpi sprigionano mi fanno pensare che l’arte del combattimento sia connaturata alla natura maschile e che il non poterla esprimere possa creare grande sofferenza, oltre a far perdere ai bambini una straordinaria occasione di conoscenza del proprio corpo. Antonio mentre afferra Giulio per gettarlo a terra riesce a fondere in un unico gesto forza ed estrema gentilezza in un modo talmente pieno di grazia da essere addirittura commovente. Nessun gesto di questi bambini è volto a fare del male, non vi è nessun tipo di aggressività o rabbia inespressa nelle loro prese decise o nei loro calci ben piazzati. Lo si capisce subito osservando i loro visi trasfigurati da un sentimento che non è quello della violenza, ma quello dell’entusiasmo. Nella sovrapposizione dei corpi ogni incastro sembra studiato e perfetto per non nuocere i punti vitali dei compagni come se in questo mescolarsi di energia e sudore il corpo dell’altro diventasse specchio del proprio, sostenendo una sensibilità in divenire che aumenta la coscienza di sé e quindi dell’avversario.

 

La lotta prevede certamente l’uso della forza, è un’energia essenziale al fine di sperimentare il coraggio e l’audacia, ma essa mette immediatamente in evidenza la necessità di stabilire regole che sanciscano il rispetto dei tempi e degli spazi di gioco. Non c’è bisogno di deciderle a priori, il corpo è talmente esplicito e possiede un linguaggio così evoluto e istantaneo che durante il combattimento ogni bambino intuisce cosa è possibile fare o non fare: ci vuole un tempo per respirare e riprendere possesso delle proprie forze, un tempo per studiare le mosse dell’avversario e un tempo sospeso e denso di adrenalina prima dell’assalto successivo. Ognuno di questi intervalli è scandito da un diverso tipo di respiro: affannato il primo dove il ritmo cardiaco è a fior di labbra, disteso il secondo per lasciare spazio ai pensieri di fluire nell’elaborazione della tattica, accelerato e in crescendo il terzo per caricare il corpo di energia. Questi meccanismi apparentemente complessi si esplicitano nel gioco della lotta con estrema semplicità e in modo del tutto automatico e per questo meravigliosamente stupefacente.

 

Anche le regole che gestiscono lo spazio sono estremamente precise e vengono velocemente condivise: chi non le rispetta viene immediatamente escluso o allontanato in quanto disturbatore del ritmo, elemento essenziale nel combattimento. Lo spazio deve essere rispettato perché sancisce il limite di sopportazione del corpo che viene sopraffatto. La compenetrazione dei rispettivi spazi vitali ha confini molto precisi: dopo essersi avvinghiati, schiacciati, tirati, uno dei due avversari deve decretare la resa e questo avviene sempre con l’allontanamento (o la fuga) del corpo perdente.
C’è un “troppo” che non può essere sopportato, un’invasione che tocca corde intime e strettamente legate all’istinto di sopravvivenza che sprona il bambino a fuggire e a non condividere più, almeno fino alla ripresa successiva, il proprio corpo. L’istinto primordiale di sopravvivenza è fondamentale che venga messo alla prova durante l’infanzia perché aiuta il bambino a scoprire i propri limiti, il confine preciso oltre il quale egli si sente spaesato e perduto, che lo difende nei momenti in cui tutto il corpo freme per una forte emozione o per una situazione che potrebbe danneggiarlo se protratta troppo al lungo. La lotta è una delle migliori armi per contrastare la tendenza al masochismo e al vittimismo, sentimenti non estranei all’universo infantile e che trovano in un corpo che si protegge e si salva la sua più potente cura.
Il coraggio è poi alla base di qualsiasi combattimento tra bambini: è quasi sempre vietato piangere, salvo nei rari casi in cui la forza non viene dosata con misura e di solito ciò avviene in circostanze accidentali. Il rischio di farsi male (e parliamo di bernoccoli, lividi e qualche graffio) fa parte del gioco, la sopportazione di qualche spinta più violenta o di un presa più decisa temprano il carattere e forniscono ai bambini una scala precisa di cosa sia il dolore fisico, garantendo per il futuro non solo una corretta ricognizione e mappatura del proprio corpo, ma anche la capacità importantissima (e mai scontata nei bambini) di distinguere il dolore muscolare e viscerale da quello emotivo.

 

Il ruolo dei genitori

Il gioco della lotta non deve trovare interferenze da parte dei genitori, essi devono restare in disparte consapevoli del fatto che i bambini se la caveranno benissimo da soli. Ci sono delle volte in cui la lotta rappresenta per alcuni bambini l’occasione di mettere in scena un vissuto che in qualche modo non ha saputo tener conto di una forza o di una esuberanza che, tenuta repressa, si libera nel gioco. La pratica costante di buone dinamiche di combattimento messe in pratica insieme ad altri bambini che non portano nel gioco tali sentimenti, può rappresentare il miglior rimedio contro simili frustrazioni.
In più di un’occasione ho potuto osservare che bambini aggressivi trovavano un corretto ridimensionamento della loro rabbia grazie ai gesti contenitivi, al tempo stesso dolci e forti, di compagni di combattimento che si rendevano disponibili a confrontarsi con loro attraverso la lotta. E’ invece più difficile riconciliare comportamenti provocatori e aggressivi durante i rituali della quotidianità. Queste situazioni infatti non fanno che reiterare schemi e contesti che non permettono l’esplicitarsi della rabbia, se non attraverso dispetti e provocazioni che trovano nel castigo o nella sgridata da parte dell’adulto, la loro condanna e repressione senza possibilità alcuna di portare a compimento l’energia che siffatti gesti necessariamente incamerano. Nella lotta, al contrario, non solo a questa energia viene permesso di esprimersi, ma trova negli altri bambini, e non nell’adulto giudicante ed educante, la sua naturale ridefinizione e comprensione. I bambini sono gli uni per gli altri grandi maestri, e i genitori dovrebbero nella maggior parte dei casi restare fuori dai loro giochi, per quanto possano apparire pericolosi o eccessivamente dinamici, per consentire all’infanzia di poter attuare le sue innegabili capacità taumaturgiche. Di questa parte ci occuperemo in modo più approfondito nel prossimo articolo sulla tutela genitoriale.

Qualche tempo fa è entrata in libreria una famiglia svizzera con al seguito cinque bambini. I nostri giocattoli comprendono un intero arsenale di armi in legno tra cui alabarde, pistole, archi con frecce, elmi, cinture con guaina per infilare spade o sciabole, picche, cotte di maglia e carabine. La casa che li produce è tedesca e si chiama Helga Kreft ed è forse la miglior azienda specializzata in questo genere di giocattolo presente oggi sul mercato contemporaneo per la cura dei dettagli e la qualità dei materiali usati.
Ci siamo molto stupiti della diffidenza che questi giocattoli suscitano nei genitori che entrano in libreria. I bambini svizzeri (tra cui tre bambine) sono usciti dalla bottega portando con sé due archi, tre spade, un elmo e una benda da pirata e già sulla soglia avevano cominciato a combattere e ad impersonare cavalieri ed eroine. Nei paesi del nord Europa il gioco di finzione con le armi (per lo più di matrice medievale o comunque romanzesca come spade, carabine, sciabole ecc…) è ritenuto quasi indispensabile per il corretto sviluppo psicofisico di bambini e bambine. Invece nelle nostre case e negli ambienti scolastici che si occupano di bambini da 0 a 6 anni, il gioco del “far finta di…” è per lo più relegato ad ambiti domestici quali la cucina e l’angolo dei travestimenti (con costumi di principi e principesse quasi sempre imbelli).

 

Riteniamo forse, in un’ottica eccessivamente perbenista e politically correct , che “il gioco della guerra” sia diseducativo? A mio avviso è esattamente il contrario. E’ infatti attraverso il gioco che i bambini elaborano la maggior parte della realtà che li circonda imparando, attraverso il fare e l’azione, a prendere atto e coscienza dei meccanismi alla base delle relazioni umane, tra cui dobbiamo necessariamente includere la rabbia, l’aggressività, il coraggio, l’audacia, la temerarietà, la paura, la debolezza, la competizione, il mutuo soccorso, l’alleanza e la collaborazione: tutte situazioni che la lotta, il gioco della guerra e della battaglia incarnano alla perfezione in modo completamente innocente e salutare. E’ attraverso la conoscenza di noi stessi, la quale nasce dall’aver sperimentato situazioni e sentimenti, che impariamo a valutare ciò che è giusto o sbagliato; se non ci siamo mai confrontati con la nostra forza, con il corpo degli altri, con la potenza che certi sentimenti sono in grado di esprimere (quali il senso di prevaricazione o di impotenza), come possiamo sperare di debellare davvero certe subdole forme di violenza e di frustrazione dalla vita futura dei nostri bambini?
Il nord Europa gode di un senso di civiltà altissimo anche se i loro bambini giocano con disinvoltura con archi, frecce, pistole e carabine. Credo anche che il gioco di finzione e la lotta siano un utilissimo strumento di osservazione per i genitori, un alfabeto gestuale ed emozionale potente che può fornire molte chiavi di lettura per intervenire, in un secondo tempo e con grande sensibilità, su certe dinamiche caratteriali che devono essere reindirizzate.

Un ultimo appunto prima di concludere

La lotta non è una pratica che riguarda solo i bambini: anche le bambine inscenano battaglie e combattimenti molto energici e sentiti. Quando combattono le bambine si può avvertire una diversa energia, in qualche modo esse traducono in una sorta di dialogo la gestualità del combattimento, i loro gesti sono più significativi e studiati di quelli dei maschi. Quando lottano spesso si fanno i dispetti, introducono la mossa del solletico (che i maschi detestano) o si tirano i capelli. E’ – come dire? – una lotta più raffinata, astuta, ma non per questo meno potente. Le bambine spesso sono più aggressive dei compagni, ma raggiunto l’apice dello scontro tentano la riconciliazione attraverso la parola. E’ più difficile, a parte tra fratelli e sorelle che mettono in campo dinamiche molto più complesse e spesso più efferate in virtù del vissuto comune che, attraverso la lotta, viene portato allo scoperto, trovare ammucchiate miste di bambini e bambine, a meno di non trovare bambine con un animo e un’immaginazione particolarmente battaglieri e competitivi. Quando lottano le femmine i genitori intervengono con maggiore solerzia e rapidità, mentre così come vale per i maschi, anche loro hanno il diritto di vivere le proprie emozioni e ad esprimere la propria energia.

Sul materasso rosso Antonio e Giulio continuano a lottare, scagliandosi a terra con grande piacere reciproco. Antonio afferra Giulio con una tale tenerezza che mi muove quasi alle lacrime perché non vi è nulla che mi commuova di più della forza legata alla saggezza, specialmente se questa ricchezza è tutta nelle mani di un bambino di quattro anni che senza saperlo sta educando mio figlio di due, con infinita dolcezza, al gioco della vita.

12 pensieri su “Un materasso rosso

  1. Cara Alessia. Inanzitutto mi sento di ringraziarti come genitore per condividere con noi le tue osservazioni in una forma così ordinata e profonda. Ho letto tutta la serie di post sul “materasso rosso” e “genitori invadenti” e solo ora ho il tempo di commentarle. Ti ringrazio perchè da loro quello che traspare chiaro e nitido è l’enorme senso di fiducia nei confronti dei bambini e delle loro dinamiche relazionali e questo mi sembra sia la cosa più importante da trasmettere a noi che ti leggiamo. Il tuo mi sembra veramente uno sguardo inedito, pulito, che cerca di riportare con la penna niente di più di ciò che ha visto nei bambini e che ha come parametro per regolarsi le loro emozioni, i loro visi e corpi che sanno parlare molto meglio delle parole.
    Sulla lotta libera come un bisogno connaturale dei maschi io sono d’accordo con te. Ho tre figli: una femmina di sette anni e due gemelli maschi di tre. E posso dirti che questa rivelazione, che può sembrare molto banale, non mi era mai sembrata così nitida e chiara come da un anno a questa parte, con la crescita dei miei gemelli. Ma così come questo mi sembra un dato di fatto l’altra faccia della moneta mi pare di capire che rispecchia esattamente il contrario: le femmine no. Non ho mai visto combattere mia figlia in nessuna circostanza, non ho mai visto che avesse bisogno o interesse nel combattimento. Se i film di battaglie e lotte possono esaltare i miei maschi fino a fargli urlare di piacere, la femmina li trova orribili, noiosi, e alla loro stessa età le facevano molta paura. Si, insieme potevamo fare il gioco della lotta con i cuscini o buttarci una sopra l’altra, ma non ho mai visto ripetere questo comportamento con altre sue coetanee femmine. Se lottano, se si tirano i capelli, lo fanno con una carica emotiva ben precisa, e ho l’impressione che “sembrano più aggressive” perchè per una bambina arrivare alle mani vuol dire essere stata portata a uno stato limite per vedersi nella necessità di diffendersi da una agressione, o per aver subito una grande offesa.

  2. Cara Adriana,
    grazie per le tue parole. Non ho la pretesa di insegnare nulla a nessuno, riporto in questo spazio il mio pensiero sperando di sollecitare nuovi sguardi, nuovi spunti di riflessione.
    Ti confesso che quando pubblico un articolo intreccio felicità e preoccupazione. Il mio maggiore cruccio nasce dalla consapevolezza di contribuire a diffondere una cultura pedagogica che possa essere fraintesa. Come mi è capitato di dire in altre occasioni quello che scrivo sgorga direttamente dalla mie molteplici esperienze, di maestra, di regista, di madre, di formatrice; nulla di quello che esprimo è posticcio o inerme, ogni parola deve risuonare in me accordandosi con ciò che ritengo buono per un bambino. Dalla sorgente nasce il ruscello e se saprà percorrere le giuste vie attraverso i boschi, le montagne e le grotte sotterranee, potrà diventare fiume e sfociare nel mare. Le idee e i pensieri fanno lo stesso percorso e come i giovani ruscelli possono incorrere in molti pericoli, anche le mie parole si possono inquinare e arrivare al mare rovesciando in esso cattivi contenuti. Per preservare pulita un’idea e un pensiero si può o non esprimerla o credere che il suo contenuto sia talmente limpido da annientare ogni contaminazione negativa. Quindi io spero di incontrare nel mio blog genitori intelligenti che adateranno le mie considerazioni al loro vissuto e a quello del loro bambino perchè ciò che io scrivo non è legge, nè la verità assoluta. Sentiamo molto spesso parlare di “buon senso”, ma alla fine nessuno sa cosa sia o come si debba applicare. Io credo che il Buon Senso corrisponda a questo: osservare il proprio bambino a lungo, con occhi e cuore aperti, coglierne l’indole, i sogni, le paure, incontrare la sua anima e agire di conseguenza. Io da parte mia, in questo blog, parlo dell’infanzia che è il periodo della vita in cui si è bambini. Di questi bambini, che incontro ogni giorno in libreria, a casa e a scuola, vorrei parlare con speranza e amore per preparare loro e in voi che leggete il terreno del cambiamento. Nessuno può cambiare però se non viene compreso nella propria unicità, nella propria complessità.
    Per cui cara Adriana, grazie per avermi parlato dei tuoi figli e per avermi fatto comprendere che forse le mie idee riescono ad arrivare pulite e limpide a voi che le leggete con tanta saggezza.

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