Qui il nucleo luminoso è quello della fiaba. Un’eco letteraria che si avverte ad ogni passo.
Nella sua struttura ferrea la fiaba non permette azioni arbitrarie: o sei dentro il genere fiabesco o sei fuori. Eppure la fiaba, nelle mani di autori capaci, sa farsi liquida, malleabile, duttile. Giostrarsi tra le sue due strutture, quella rigida e chiusa come un anello e quella morbida dalle lunghe spire, non è da tutti: ci vuole talento, precisione e regola.
Ne I figli del mastro vetraio ritroviamo un romanzo che riesce ad assorbire in modo mirabile le inquietudini della fiaba senza scadere in una banalizzazione della trama.
Molti sono gli autori che hanno fallito maneggiando la tradizione popolare del racconto di magia, ma Maria Gripe dimostra qui una padronanza assoluta dell’intreccio e un equilibrio che non consente mai al lettore di cadere nel “dejà lu” (il già letto) per dirla con Sartre. Una caratteristica importante questa per un romanzo, ma meno pregnante nella fiaba, dove paradossalmente la prevedibilità degli eventi aumenta il pathos della storia.
In una diretta Instagram (ascoltabile qui https://www.instagram.com/p/CT7qXO3AUAr/ ) Alessia lo intreccia al libro L’orologio meccanico di Philip Pullman (che potete trovare qui https://www.radicelabirinto.it/prodotto/lorologio-meccanico/), e al libro Ultimo venne il verme di Nicola Cinquetti (che potete trovare qui https://www.radicelabirinto.it/prodotto/ultimo-venne-il-verme/).