Un grande giorno di niente – albo illustrato

 

Questo articolo è dedicato a Viola, bibliotecaria infaticabile e straordinaria, e a Barbara, letteralmente amica di penna.

Bambino e Natura

Beatrice Alemagna ha messo a fuoco nei miei pensieri una riflessione più ampia intorno al tema del bambino nella natura, un argomento quanto mai attuale non solo nella letteratura, ma in tutti gli ambiti che riguardano l’infanzia: dalla pedagogia all’alimentazione, dall’arredamento al tempo libero, dai giocattoli all’igiene.

 

Un grande giorno di niente di Beatrice Alemagna - Topipittori 2016
Un grande giorno di niente di Beatrice Alemagna – Topipittori 2016

 

Questa mia recensione non verterà sull’aspetto figurativo e testuale dell’albo, di cui darò solo qualche accenno, ma sul contenuto e sul contesto culturale e sociale, in particolare quello italiano, in cui il libro vede oggi la luce.

Non vi è dubbio che le illustrazioni dell’Alemagna siano straordinariamente suggestive e potenti (forse le illustrazioni che ho amato di più tra tutti i suoi libri), e si “sporchino” (per usare la stessa espressione con cui l’autrice ha definito l’uso del colore in questo albo) di tavola in tavola di tinte cupe, acquee e umide, a loro volta accese ed esaltate dal colore guida dell’albo: quel magnifico arancione fosforescente.

La storia è ben costruita e non ci sono sbavature nel testo, anzi, “Un grande giorno di niente” è un albo credibile e fresco nella scelta dei vocaboli. Un testo, quello di Beatrice Alemagna, conciso senza essere laconico, proprio come si addice ai migliori albi illustrati. Una storia che coinvolge il lettore con un ritmo di parole e immagini perfettamente modulato tra pause e rincorse.

 

Un grande giorno di niente
Un grande giorno di niente

 

La lettura del pubblico

Ed è stato forse l’entusiasmo e il tipo di lettura che ho visto fare dal pubblico adulto a farmi riflettere: il rischio più forte che corre oggi un libro come questo è quello di essere strumentalizzato, soprattutto nel nostro contesto italiano così legato ad una lettura pedagogica del libro per bambini.
Mi sono dunque chiesta cosa risulti troppo “ad hoc” in questo libro per  soffocare una lettura più profonda (certamente presente nell’albo) a favore di una lettura più facile e immediata.

Un grande giorno di niente” è l’albo perfetto per parlare al bambino di noia e natura.
Scelto soprattutto da insegnanti, questo libro pare risulti perfetto per costruire percorsi didattici sulla noia e sulla natura.

 

Un grande giorno di niente
Un grande giorno di niente

 

E i bambini che cosa pensano di questo albo?

I bambini sono più liberi, spensierati, si lasciano incantare e guidare allo stesso tempo, con il medesimo entusiasmo e la medesima disponibilità. Salvaguardare la loro sensibilità sempre più minacciata da un adulto che piega le storie a suo piacimento, è uno dei mie scopi come libraia.

E’ vero che il senso estetico di un bambino va coltivato e che non sempre la risposta dei piccoli lettori debba essere presa come giudizio insindacabile attraverso il quale sancire o meno la riuscita di un prodotto editoriale. Lo sguardo di un bambino non è mai del tutto “innocente”, ma influenzato fin dal principio dalle storie, dalle parole e dalle immagini che la società  e la famiglia costruisce intorno a lui.  Sarà allora importante che l’adulto si interroghi sulle prioprie scelte a scaffale perché il suo sguardo e la sua visione non avranno poca parte nell’educare lo sguardo dei più piccoli.

 

Un grande giorno di niente di Beatrice Alemagna
Un grande giorno di niente di Beatrice Alemagna

 

Educazione all’aperto

Si parla molto oggi di “educazione all’aperto”.
Sebbene Betarice Alemagna abbia voluto raccontare la riscoperta di un tempo per sé, la forza creatrice ed edificante di una giornata di “niente”, la meraviglia intrinseca nelle piccole cose, e nonostante il nucleo centrale del suo lavoro non sia la natura, bensì l’immaginazione, diventa davvero difficile separare nello svolgersi della storia questi due elementi, che di fatto fanno della loro relazione una delle maggiori attrattive del libro.

In “E poi… è primavera” di Erin Staed e Giulie Fogliano (Babalibri, 2013) la noia, l’attesa, la natura sono tutte ugualmente presenti, eppure la lievità dell’albo permette di non avere una percezione immediata della chiave interpretativa. E dal momento che “E poi… è primavera” richiede una libertà di lettura più alta, risulta un albo di gran lunga meno attraente rispetto al libro di Beatrice Alemagna, anche se bellissimo.

E attenzione: non è che “Un grande giorno di niente” non possieda anche un livello di lettura profondo.
Gli albi dell’Alemagna (quando non veicolano un messaggio esplicito – e penso per esempio ai Cinquemalfatti) nascondono sempre dei tesori meravigliosi, piccoli dettagli in cui la didascalia è messa al bando senza alcuna remora. Prendiamo, per esempio, il fatto che il bambino, al termine della sua passeggiata riconosca nei propri atteggiamenti la stessa attenzione che la madre mette nel guardare il fiore di cui probabilmente sta scrivendo; o prendiamo la dolcezza e la discrezione con cui la mamma accoglie il figlio sporco di fango e fradicio di pioggia; prendiamo la cioccolata calda, o quegli occhi negli occhi e quel silenzio che non ha bisogno di parole.
Ecco, per me, in questi piccoli cammei, c’è molto di più rispetto alle capriole giù per la collina, dell’arrampicarsi su un albero, del saltare in una pozzanghera. E anche se quei dettagli non parlano direttamente di un “fuori” lo contengono perfettamente.

 

Un grande giorno di niente - particolare
Un grande giorno di niente – particolare

 

Esplicito ed implicito: ovvero della libertà di lettura

Forse la strumentiazzazione di “Un grande giorno di niente” deriva dal fatto che Beatrice Alemagna cede spesso, nei suoi albi,  alla tentazione di porre in rilievo alcuni aspetti che le stanno particolarmente a cuore dell’indole e della motivazione dei suoi personaggi, come se volesse suscitare più empatia nel lettore al fine di attrarlo nella storia.

La stessa Beatrice Alemagna del resto ha detto di credere fermamente nel fatto che i libri possano produrre un cambiamento nel lettore. E in quanto libraia non posso che appoggiare questa idea.

Ma come portano il cambiamento i libri?

In modi differenti l’uno dall’altro: a volte dichiarando i propri intenti, a volte celando i propri messaggi dentro la storia, a volte facendo entrambe le cose, ma in tutti i casi possiamo dire che un libro sia riuscito quando la storia si dipana con leggerezza (si pensi a “Federico” di Leo Lionni, dove il messaggio è certamente presente, ma così lieve da assumere quasi la potenza del discorso fiabesco).

L’analisi di “Un grande giorno di niente” mi porta invece a riconoscere nelle storie di questa straordinaria illustratrice sempre un’eco lontana del suo primo grande successo “Che cos’è un bambino”, un albo che getta sull’infanzia uno sguardo a posteriori, e che sebbene risulti autentico tende ad apparire un po’ troppo costruito.

In “Che cos’è un bambino” – a partire dal titolo – c’è un sentire adulto, un artificio poetico che per quanto commovente non può essere paragonato alla leggerezza con cui, per esempio, Gianni Rodari parla e racconta dei suoi bambini che sì, hanno piccole mani e grandi pensieri, ma non sentono il bisogno di dichiararlo perché le storie di cui sono protagonisti ce lo dicono già.
A mio parere il vero talento di Beatrice Alemagna sta proprio nel fare emergere dalla storia – e in particolare dalle illustrazioni – un non detto potentissimo.
Quando le sue storie sono libere di svolgersi oltre l’idea di bambino che a lei preme comunicare, riescono a disegnare protagonisti di gran lunga più complessi e vibranti.*

 

Un grande giorno di niente
Un grande giorno di niente

 

La strumentalizzazione

Il rischio che un albo delicato come “Un grande giorno di niente” venga strumentalizzato, sta forse nel trovare soluzioni narrative che diventano, per certi aspetti, maniera. E sono proprio questi aspetti (il rapporto tra noia e natura e la riscoperta delle piccole meraviglie di un bosco come le lumache, le pozzanghere…ecc) a decretare l’eccessiva aderenza di “Un grande giorno di niente” al contesto sociale e culturale attuale, e di conseguenza a farne un albo molto gradito, ma che potrebbe bloccare la lettura ad un livello superficiale, “facile”, troppo “ad hoc”.

La mia prima impressione  è stata quella di avere tra le mani un libro di una potenza figurativa fuori dal comune (la tavola con i funghi in primo piano è semplicemente magnifica), ma che mettesse troppo in primo piano gli aspetti secondari della storia a discapito di quelli più profondi, lievi e impalpabili. Essendo ormai i temi della noia e della natura così largamente dibattuti** in ambito pedagogico, occorre, per evitare letture strumentali, riuscire a scendere molto al di sotto la superficie per invitare il pensiero ad affacciarsi su orizzonti più ampi.

 

Un grande giorno di niente
Un grande giorno di niente

 

La semplificazione

Non possiamo nemmeno accontentarci del messaggio più rassicurante del libro, ovvero quello che, alla fine, la bellezza della natura vince sui videogiochi.
E non fraintendetemi quando dico che il libro di Beatrice Alemagna sia un libro “facile”: so bene che le tinte meravigliosamente cupe di “Un grande giorno di niente” respingono chi non ha mai frequentato una libreria per ragazzi, e che magari è solito comprare i libri al supermercato, ma so anche che chi ora mi legge** ha già superato la dicotomia libro facile/libro difficile da un punto di vista estetico, concettuale e formale; qui “facile” è sinonimo di immediato, di empatico, anzi di simpatico.

Dalla caduta del videogioco nel lago in poi, mi pare che la trama diventi un po’ troppo scontata (mentre di contro le illustrazioni traducono un immaginario molto più variegato e intenso – il bambino compie quasi una discesa agli inferi).
Mi sarebbe piaciuto che anche il testo veicolasse una visione meno lineare e meno immediata. Invece è come se le parole tramutassero il libro, passatemi il termine, in una sorta di Boscoland: saltare nelle pozzanghere, rotolare dalla collina, parlare con gli uccelli, bere da una foglia; un giorno di niente divenuto improvvisamente un giorno di tutto.

Leggendo ho pensato a me, che da bambina ho avuto la fortuna di avere a disposizione il prato del condominio. Nessun bosco, ma un giardino piantumato e ben tenuto in cui passavo molti pomeriggi da sola. Mi sono chiesta cosa sia la noia per un bambino che ha un pezzo di terra (se non addirittura un bosco) dietro casa o che trascorra molte ore, dopo la scuola, in un parco cittadino, un luogo che egli abita come un’estensione del proprio mondo, vissuto con tale spontaneità da trovarvi al suo interno anche la noia. Perché se la noia è una possibilità di scoperta, uno status privilegiato dove ciò che davamo per scontato diventa fonte di divertimento e interesse, allora annoiarsi in una natura familiare quali tesori ci porterà? Gli stessi che il bambino dell’Alemagna scopre nel bosco?
(vi invito a leggere questa interessantissima riflessione sulla noia a cura di Giovanna Zoboli)

 

Un grande giorno di niente
Un grande giorno di niente

 

La pedagogia della pozzanghera

E non voglio dire, riportando l’attenzione alle numerose variabili del quotidiano di un bambino, che la letteratura non debba contenere una dose di avventura, di idealità e di immedesimazione che sfugge alle logiche del proprio vissuto (e per fortuna! Altrimenti chi leggerebbe più Pippi Calzelunghe!); dico però che questo binomio noia/natura sta, a mio avviso, tracciando confini troppo netti tra un’infanzia tecnologica e da appartamento e un’infanzia elementare (cioè ricondotta ai suoi splendenti minimi termini gioco/esperienza/legami affettivi) e silvana (non uso volutamente l’aggettivo “naturale” perché legato ad infanzia, maternità, educazione, non specifica nulla e, anzi, è a mio avviso del tutto fuorviante)

E’ vero che il bambino dell’Alemagna si annoia nella natura, almeno all’inizio, quando è bagnato fradicio e il suo video gioco non è ancora caduto nel lago. Si annoia anche quando il videogioco è perduto e lui sente le gambe pensanti come tronchi d’albero. La situazione in effetti è piuttosto antipatica: perché stare fuori quando piove? Per quanto siano allettanti le pozzanghere, stare sotto la pioggia, ammettiamolo, non è sempre così entusiasmante.

In questo senso la noia del bambino di “Un grande giorno di niente” è più intima e discreta, è vera.

Ma dov’è allora che si perde questa sensazione?

Io la perdo quando la natura diventa una fantasmagorica carrellata di tesori, e quando il videogioco cade nell’acqua.

 

Un grande giorno di niente
Un grande giorno di niente

 

Annoiarsi nella natura porta sempre a valorizzarne le piccole meraviglie? Cos’altro c’è oltre alle lumache, alle pozzanghere, alle gocce, all’arcobaleno, ai vermi? È vero, è tutto estremamente interessante, ma è come se il nostro sguardo fosse un po’ viziato o ancora non del tutto libero, ancora in cerca di qualcosa di speciale per essere affascinato.

E se non ci fosse nulla?

Sono fatte di nulla le piccole cose che rendono speciale la giornata del bambino di “Un grande giorno di niente”, ma è un nulla molto preciso, molto rispondente ad un’idea di natura che specialmente l’adulto ha già interiorizzato prima di leggere il libro e che potremmo simbolicamente – e provocatoriamente – racchiudere in quella che chiamerei “la pedagogia della pozzanghera”.

 

Un grande giorno di niente di Beatrice Alemagna
Un grande giorno di niente di Beatrice Alemagna

 

Una pedagogia degli opposti

Eppure so quante persone ancora sono convinte che i bambini non si debbano sporcare mentre giocano in giardino (come se poi i bambini non si sporcassero ugualmente) o pensano che con il cattivo tempo non si debba uscire all’aperto; e so quanti bambini non conoscono più le meraviglie di un bosco.
Ma mi chiedo se un discorso semplicistico come sporcarsi, uscire quando fa freddo, contrapporre videogioco e natura, mettere i piedi nelle pozzanghere, arrampicarsi sugli alberi, non tolga spessore ad un discorso d’insieme che deve essere, a mio parere, molto più articolato e complesso se si vuole davvero comprendere come il bambino non viva mai, nemmeno quando ci adoperiamo per il contrario (in un senso o in un altro), in un mondo separato.

Il discorso “ce n’è così bisogno che va bene tutto” non mi ha mai convinto, e non voglio nemmeno dire che l’albo dell’Alemagna sia in questo senso “il meno peggio” anzi, è un albo davvero esemplare, specie nelle illustrazioni. Giuseppina Pizzigoni, sebbene sia stata la prima a portare in Italia un pensiero pedagogico legato allo stare in natura, non ha mai voluto definire la sua scuola come “en plain air”, forse perché temeva che questa etichetta avrebbe coperto tutte le infinite correlazioni tra il dentro e il fuori, facendo perdere di vista una delle cose più rischiose in educazione, ovvero le categorizzazioni.

Mi chiedo quanto il continuare a parlare del rapporto tra Natura e Bambini sempre nella stessa modalità non faccia scadere un tema quanto mai urgente come il tempo che un bambino passa fuori di casa (e non necessariamente in un bosco) in un “vademecum” che corre il rischio di chiudere il discorso sulla natura in uno specchio che riflette solo se stesso all’infinito. E’ sicuramente importante che la pedagogia italiana si sia fatta carico, negli ultimi anni di un’educazione che abbracci tutte le dimensioni dello spazio a cui il bambino ha accesso, ma ho l’impressione che si stia sempre più andando verso una banalizzazione dei contenuti, riducendo tutto ad una dialettica degli opposti: dentro/fuori, intrattenimento/noia, studio/esperienza.

 

Un grande giorno di niente
Un grande giorno di niente

 

Il bambino tra casa e giardino

Come si viveva il fuori prima dell’avvento della così detta “pedagogia naturale”?

Come lo abbiamo interiorizzato questo fuori noi a cui nessuno poneva l’accento su vermi, pozzanghere, zuppe di sassi, e che non ci fotografa mentre ci inzaccheravamo nel fango (se lo facevamo)? Lo vivevamo con spontaneità e anzi, con un pizzico di segretezza: erano cose nostre, cose da bambini perché è vero che il mondo degli adulti è fatto di altro, anzi, la contrapposizione tra infanzia e vita adulta, quando si pone l’accento sulla natura, si separa sempre di più (un’infanzia in natura ti farà felice, ma cosa succede di quel rapporto quando bambino non sarai più?).

Per questo motivo, apprezzo molto che il bambino di Beatrice Alemagna sia solo nel bosco e non senta poi il bisogno di raccontare tutto alla mamma: è uno dei passaggi che dell’albo ho amato di più. Quando io ero piccola non c’era bisogno di separare la camera dal giardino, dalla strada o dal cortile, passavo da una all’altro con lo stesso entusiasmo, perché entrambi gli ambienti erano attraenti e nessuno ci diceva perché lo fossero. E se non lo fa il bambino del libro perché essere noi adulti a porre enfasi su tutto ciò che succede nel bosco?

 

Un grande giorni di niente
Un grande giorni di niente

 

Un fuori segreto

In “Libro d’estate” di Tove Jansson, nonna e bambina condividono un’intera isola, un territorio selvaggio, a volte perfino estremo, nello scorrere di un’estate nordica. Tra la casa e il fuori non c’è discontinuità, e non c’è mai nemmeno un soffermarsi enfatico sugli elementi naturali. Perfino quando Sofia vuole scrivere un trattato sui “vermi” la nonna la ascolta con una tale naturalezza che è solo il lettore, dall’altra parte dello specchio, a stupirsi per l’estrema perspicacia della bambina: nella storia invece tutto resta intatto, nulla viene toccato da un bisogno impellente di sottolineare la straordinarietà del pensiero di un bambino sulla natura.

Ecco, credo sia l’enfasi, consapevole o meno da parte degli autori che negli ultimi due anni hanno affrontato il tema della natura, a disturbarmi tanto nei libri che oggi vogliono porre l’accento su quanto sia bello vivere fuori, circondati dal bosco o bagnati dalla pioggia.

Il bambino dell’Alemagna che affonda le mai nella terra, nella tavola che io più preferisco di tutto l’albo, e sente e immagina…ecco quello è un momento splendido, un momento che dice:“Questo è tutto per me, un pezzo di terra tutto mio, un momento intimo e segreto con il mondo”.

L’avventura nel bosco poteva proseguire senza altri eventi straordinari (il nulla poteva restare nulla), poteva raccontarci con i suoi colori intensi e cupi un pomeriggio davvero di niente.

E a proposito di segretezza e delicatezza, trovo straordinaria l’idea dei piccoli marziani disegnati sull’impermeabile arancione che fanno da contrappunto a quegli esseri silvani dai capelli dritti disegnati con tratto lieve sotto la terra del bosco, a darci l’idea che per un bambino gli immaginari non sono mai separati tra loro, ma che una volta colpita la fantasia – perfino con le immagini di un videogioco – questa produce incandescenze all’infinito. (Ecco questo è quel non detto potentissimo delle illustrazioni della Alemagna di cui parlavo prima).

 

Un grande giorno di niente-dettaglio
Un grande giorno di niente-dettaglio

 

Un albo fragile

Questo di Beatrice Alemagna è un albo molto fragile, mirabile nelle illustrazioni, ma un po’ troppo costruito.
Un albo che rischia una forte strumentalizzazione, ma che commuove per alcuni passaggi delicati e intimi.
Suggerisco di leggerlo spensieratamente, di gustarsi le illustrazioni, di non porre enfasi sulla noia, sulla natura, sul rapporto tra i bambini e i videogiochi, di non renderlo cioè un albo pedagogico perché l’equilibrio di “Un grande giorno di niente” è delicato e rischia di crollare nelle mani dell’adulto che lo legga un po’ troppo compiaciuto.

Ricordo perfettamente di avere avuto da bambina giornate così, in cui rientravo a casa davvero trasformata: una volta perché avevo osservato il volo dei piccioni sdraiata su una panchina marinando la lezione di catechismo, un’altra volta mi aveva reso felice scorgere le testoline bianche e gommose dei funghi spuntati tra l’erba del prato (il mio prato!), un’altra ancora mi aveva colpito il profumo della terra dopo un pomeriggio di pioggia, altre i semi ad elica di quello che io e i miei amici chiamavamo “l’albero delle salsicce”. Erano piccole cose, ma mai tutte insieme, cose che apparivano a forza di frequentare la natura e di annoiarsi in essa, annoiarsi davvero.

Cose così delicate che anche a scriverne si perde qualcosa, qualcosa che non può essere comunicato, come se quel tempo, quelle rivelazioni, fossero sotto un incantesimo che appena pronunciato le faceva sembrare banali. Forse solo delle parole magiche (come “il mormorio verde” di “E poi…è primavera”) o illustrazioni magnifiche come quelle di Beatrice Alemagna in “Un grande giorno di niente” possono raccontare senza rompere il misterioso incanto. Forse, come il bambino dell’Alemagna si può solo condividere il silenzio.

 

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*

Se prendiamo un altro albo di grande successo di Beatrice Alemagna, “Il Meraviglioso Cicciapelliccia”, un libro che amo moltissimo, mi chiedo, dopo averlo proposto tante volte ai miei lettori, se ci sia davvero bisogno di dichiarare, a inizio della storia, che Edith pensa di non sapere fare nulla di nulla. Mentre lo leggo ad alta voce ad un bambino, mi domando se sarebbe cambiato qualcosa nello svolgimento della storia, per altro estremamente accattivante e ben costruita, se il libro fosse iniziato in “medias res”, ovvero con Edith che sente le parole -compleanno, mamma. Ciccia, pelliccia -. Perché mentre seguiamo Edith nella ricerca del suo Cicciapelliccia ci dimentichiamo che lei non sa fare nulla di nulla; siamo invece piuttosto avvinti dal ritmo incalzante di ciò che succede, già affezionati a Edith a prescindere dalle sue qualità, perché travolti dalla sua intraprendenza. Ed è per questa stessa ragione che il libro potrebbe chiudersi, sempre a mio avviso, con l’immagine della mamma allo specchio con il suo incredibile Cicciapelliccia sulla testa, illustrazione molto più forte ed efficace che non la chiosa in cui leggiamo che Edith è, alla fine, diventata insuperabile nel trovare i Cicciapelliccia.

 

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Dopo tante formazioni in scuole e biblioteche e dopo aver letto tante recensioni, frequentato gruppi sui social network, assistito a dibattiti più o meno accesi intorno ai libri per bambini e ragazzi, posso affermare che il mondo della letteratura per l’infanzia è un piccolo mondo dorato che tende a riflettere se stesso all’infinito. Le riflessioni sull’albo illustrato vengono lette e scritte sempre dalle stesse persone che, a vario titolo, si pongono l’obbiettivo di educare alla buona letteratura il maggior numero di persone possibile, riuscendo tuttavia ad allargare la cerchia di appassionati competenti con grande lentezza. Inoltre le finalità di ogni blogger e formatore possono essere molto diverse tra loro a seconda di come il libro per bambini viene inteso, interpretato, letto e vissuto. Generalmente possiamo dire che chi legge e parla di albi illustrati di qualità sono persone con un’istruzione di base medio-alta, persone che affiancano alla propria cultura in fatto di albi illustrati, tutta una serie di idee sull’infanzia, tra cui quella di un approccio cosiddetto “naturale”, che possono avere un grande peso quando si tratta di definire un libro riuscito da uno meno riuscito. Esemplare in questo senso è il caso editoriale di “Storie della buonanotte per bambine ribelli” dove il pubblico si è diviso tra il contenuto e la qualità dei testi. In generale possiamo dire che un certo tipo di albo, come questo di Beatrice Alemagna, non arriva a tutti ed è questa la lotta più strenua di una libreria: conquistare anche il lettore che normalmente acquista i libri in edicola o al supermercato. Ma quando finalmente  un albo arriva ad una persona che non è avvezza di albi illustrati, che non sa nulla di letteratura per l’infanzia, il rischio che questa persona interpreti (spesso inconsapevolmente) il libro secondo l’idea di infanzia veicolata dai media (un’infanzia colorata, rassicurante, edificante, rotonda, buona, serena) è forte. Allora anche laddove viene superato lo scoglio dell’illustrazione “cupa”, resta il rischio di vivere il libro come un compendio didattico. Si forma così un pubblico per lo più femminile, di neo mamme o maestre d’infanzia, che si avvicina all’albo illustrato come “libro manuale” per aiutare i bambini a superare determinate fasi della vita o per iniziarli a tematiche come l’amicizia, l’immaginazione, la natura. A questa fascia l’albo di un’illustratrice famosa come Beatrice ‘Alemagna probabilmente arriva ed è qui che il rischio di strumentalizzazione è maggiore. E’ vero che il comparto dell’editoria più florido al momento in Italia è quello dedicato a bambini e ragazzi, ma non dimentichiamo che la quantità non è sempre sinonimo di qualità e che il maggior acquirente di albi e libri per bambini è un pubblico adulto femminile, non un pubblico di bambini. Questo da un lato ci dice che non è proporzionale la quantità di libri venduti con il numero di nuovi lettori, e dall’altro che il pubblico femminile legge esclusivamente libri per bambini (la narrativa per adulti vende sempre meno) decretando una visione asfittica e spesso acritica della letteratura per ragazzi (riconosciamo infatti la buona letteratura per ragazzi se sappiamo riconoscere la buona letteratura tutta). Ecco perché la mia analisi è rivolta ad un pubblico adulto che indicativamente si colloca tra la fascia alta e intermedia e perché affermo che, per esempio, che per chi mi legge il “tema della natura” e “della noia” è all’ordine del giorno.

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