Pensavo all’infanzia.
Mi accorgo di pensare più spesso all’infanzia che ai libri per bambini. I libri li leggo e mentre leggo non penso, mi lascio trasportare dalla storia. La mente è accesa e l’immaginazione pure. Penso dopo, specie se il libro mi è piaciuto, il che vuol dire che ha aperto in me domande perturbanti. Quando penso ai libri scritti per bambini, mi ritrovo sempre a riflettere sull’infanzia.
Elisabetta Cremaschi domenica 22 aprile, durante il primo appuntamento del suo corso “La traduzione della vita”, ha parlato d’infanzia come l’età in cui – e lo dice il suo etimo – non si ha la facoltà di parola, ma anche l’età di cui è quasi impossibile dire qualcosa, una fase della vita indicibile e misteriosa che ci appare solo a posteriori, quando ormai siamo adulti. Così oggi riascoltavo un appunto vocale registrato circa un mese fa (ho preso l’abitudine di appuntare con la voce alcuni pensieri quando non ho la penna a portata di mano) e ho ritrovato qualcosa che oggi forse vale la pena mettere per iscritto.
Meditavo sul fatto che per molti adulti che entrano in libreria le memorie d’infanzia sono spesso stereotipate, come se di fronte all’acquisto di un libro ( e forse non solo in questa circostanza) essi perdessero la capacità di ricondursi al loro sé bambino. Una sorta di indicibilità acquisita, una difficoltà cioè non tanto intrinseca all’infanzia, ma alla memoria, che non sa più ricordare e raccontarsi davvero, come se un’infanzia altra (o di qualcun altro) si sovrapponesse inesorabilmente alla propria. Ma di quest’altra infanzia, così canonizzata, e così assoluta e così paradossalmente impersonale, si trovano ovunque immagini e parole ( e a buon mercato!) perché il commercio ha bisogno di vendere e quindi di veicolare sapori, odori, sensazioni, emozioni …peccato che i ricordi costruiti in questo modo siano fittizi o peggio – perché i più difficili da eradicare – idealizzati.
Le prime immagini d’infanzia a cui i genitori paiono riferirsi non sono le loro, piuttosto sono quelle veicolate dalla società contemporanea. Pensano e parlano di cosa i bambini fanno durante l’infanzia (ma esiste un’infanzia generica?) come se la memoria fosse variamente permeabile alle suggestioni del loro passato. Non posso dire che sia del tutto impermeabile perché, per fortuna, quando si lasciano condurre per mano, molti di loro, quasi con sbigottimento, riacciuffano per i capelli il bambino o la bambina che sono stati e iniziano a percepire l’autenticità delle loro voci. E’ un’operazione che non ha a che vedere con la psicologia, il libraio non è un professionista in quel campo, ma sicuramente può possedere un potere maieutico che egli esercita attraverso il pensiero e le storie.
E che gioia quando i genitori si ricordano di aver avuto paura raccontandomi episodi quasi mitici (mi ricordo quella volta che…) con il sorriso sulle labbra perché la soddisfazione più grande e di averla superata quella paura; o quando ricordano di essere stati tristi, a volte disperati, e che quella atavica condizione non è affatto estranea all’infanzia dei loro figli come vorrebbero farci credere; o quando riportano alla memoria un lutto o una grande felicità per poi guardare i libri a tema con disincanto perché nulla di quello che hanno provato è dentro a pagine scritte a tavolino per dare ad un bambino la morte di un nonno generico, di una tristezza generica, di una gioia generica.
Ecco, quando gli adulti recuperano la propria infanzia sollevano il velo sui libri, sulla scuola, sulla società e vedono. Vedono il mistero, la bellezza del mondo e scoprono che l’unica cosa che possono chiedere ad un libro e provare a raccontarla, a tradurre quell’indicibile, a dire la verità, ed essere autentici.