La questione è spinosa: è bene che i bambini guardino la televisione?
Per rispondere a questa domanda dovremmo aprire un dibattito sconfinato perché sconfinata è la quantità di riposte che di volta in volta esperti, genitori, pedagogisti, maestre, educatori ha fornito negli ultimi decenni intorno a questo argomento.
E se mai volessimo inoltrarci nella giungla dei consigli degli psicologi, delle irremovibili posizioni dei genitori contro o a favore, delle riflessioni pedagogiche, delle opinioni della gente (perché ognuno ha un’idea in merito) non riusciremmo forse a fare chiarezza davvero.
Allora abbandoniamo il dibattito e facciamo un atto provocatorio: sediamoci su un comodo divano, prendiamo una ciotola di pop-corn o un barattolo di gelato e accendiamo il lettore video. Il dvd inserito è il film di Hayao Miyazaki “Il mio vicino Totoro”. E per una volta (o per la prima volta) ci guarderemo un film per bambini senza di loro e solamente alla fine della visione proveremo ad entrare nel dibattito. Ci state?
Il film è del 1988. Lo chiamo film e non cartone animato perché sia la sua regia che la sua sceneggiatura sono molto complesse, ricche e raffinate. E’ indubbio che Totoro appartenga al genere del film d’animazione, ma se provassimo ad avvicinarci alla visione partendo dal presupposto che siamo di fronte ad un piccolo capolavoro della storia del cinema e se lo guardassimo senza pregiudizi, allora potremmo coglierne tutta la bellezza.
La prima sequenza di Totoro, dopo i divertenti titoli iniziali, riguarda un furgoncino del trasloco: un’intera casa fissata su un piccolissimo trabiccolo a tre ruote, con i cassettoni, l’armadio e la bicicletta legati insieme da corde, un paralume che sbuca dall’accozzaglia dei mobili, le porcellane avvolte in un grande sacco di tela e libri e giornali tra le gambe dei tavoli. E nascoste in questo meraviglioso mondo portatile sbucano due bambine, Satsuky e Mei, le protagoniste del film.
La prima immagine è a mio avviso una delle chiavi di lettura più potenti dell’intera storia.
Non è solo una casa quella che il furgoncino sta traslocando in campagna, ma il simbolo di una piccola famiglia che riesce a condensare in poco spazio un intero mondo di relazioni, affetti e ricordi.
Cambiare casa comporta quasi sempre lo spostamento di una enorme quantità di cose e spesso in queste circostanze veniamo sopraffatti dalla disperata voglia di disfarci di tutto pur di essere di nuovo liberi e felici. Il trasloco ci offre ogni volta l’occasione di buttare il vecchio per fare ordine e pulizia, ma inesorabilmente dopo qualche anno ci ritroviamo sommersi da un sempre maggior numero di oggetti, mobili e cianfrusaglie.
Non è così per la famiglia Kusakabe, che pare avere raggiunto una sintesi felice e una leggerezza di spirito tale da trasmettere alle cose la stessa serena disinvoltura. Quasi si regge da solo il mobilio sul piccolo furgone come se fosse retto e sostenuto dai sorrisi e dall’amicizia delle due sorelle che se ne stanno beate sotto l’intera pila di mobili senza temere alcunché. Il loro babbo siede davanti, accanto all’uomo di fatica assunto per dare una mano.
Quindi Totoro inizia con un viaggio verso una meta che non ci è ancora dato sapere. E nemmeno conosciamo il motivo del trasloco, ma intuiamo che possa avere a che fare con l’assenza della madre.
La casa sopra il furgoncino si sposta per strade di campagna e infine raggiunge la meta, ovvero una nuova casa in grado di accoglierla, contenerla, darle voce. Come in un gioco di matriosche, in un solo pomeriggio, dentro la scatola più grande viene racchiusa la scatola più piccola e in questi luoghi concentrici si muovono Satsuki e Mei, inconsapevoli di essere loro stesse il centro pulsante di vita che fa gravitare intorno tutto il resto.
La nuova casa è ancora una volta una chiave di lettura. E’ una struttura circolare in cui le stanze più grandi si affacciano l’una sull’altra creando l’impressione di un labirinto. Ai lati del corpo centrale ci sono gli ambienti caldi e umidi (cucina e vasche da bagno), i luoghi del pensiero (lo studio del padre delle bambine) e quelli del segreto (la stanza nella soffitta, l’unica al piano superiore). Tutt’intorno alla casa c’è un giardino circondato da alberi e arbusti e sovrastato da un grandissimo albero di Canfora.
La nuova casa ha già una sua storia che da subito si intreccia al vissuto della famiglia Kusakabe. E’ risaputo infatti che la casa è infestata dai fantasmi. Il suo aspetto diroccato, il tunnel di alberi che le fa da ingresso, la sua posizione isolata, circondata da alberi che ne impediscono la visuale dalla strada, e la sua vicinanza al grande albero sacro, la rendono il luogo perfetto per essere abitato e visitato dagli spiriti.
Satsuki e Mei percepiscono immediatamente il fascino della casa e senza riserva alcuna si gettano nella sua atmosfera sospesa e, come se fossero esse stesse degli spiriti allegri e leggeri, entrano velocemente in sintonia con ogni cosa. La straordinaria apertura dell’infanzia verso ciò che è magico e la capacità che direttamente discende dal senso di meraviglia di saper leggere e rendere palese il mistero, rendono Satsuki e Mei pronte a incontri straordinari. Dapprima sono delle ghiande che cadono dal soffitto ad attrarre la loro attenzione, poi le stanze a lungo chiuse e buie che rivelano la presenza di piccolissimi ospiti, i Corrifuliggine. Alcuni luoghi poi si nascondono alla vista e per trovarli bisogna saper guardare a fondo: “Le scale per il secondo piano dove potranno mai essere?” chiede il babbo.
Gli adulti del film di Miyazaki sono tutti custodi dell’infanzia: non solo proteggono e accudiscono, ma rendono possibile e plausibile ogni scenario. Non giudicano e non limitano libertà e fantasia, ma accompagnano i bambini in un percorso di consapevolezza di sé e del mondo che mai esclude la magia e il mistero. Sono adulti che ancora ricordano con gioia la propria infanzia senza rimpiangerla; il loro atteggiamento è sempre di grande serenità perché abbracciano la certezza che la strada tracciata dinnanzi ai propri figli potrà essere percorsa con coraggio e presenza d’animo solo se una spiritualità profonda sarà attinta dalla natura e dalle più piccole cose.
Il film è diviso in sei quadri, ogni capitolo si apre e si chiude seguendo il ritmo del sole. Solo la quinta parte, la più onirica delle sei (dove Totoro fa crescere in pochi minuti un albero di canfora gigantesco nel giardino davanti a casa delle bambine), ha un andamento inverso rispetto al resto della storia perché inizia di notte e si conclude allo spuntar dell’alba. I paesaggi sono sempre disegnati dalla luce, un fattore questo che determina il carattere realistico di ogni passaggio saliente della storia. Le ombre lunghe delle sere d’estate, la canicola del mezzogiorno, i temporali improvvisi, le notti piene di grilli e stelle donano al cartone animato una profondità e una veridicità davvero sorprendenti. La campagna giapponese dei primi anni cinquanta ricca di risaie e boschetti ci viene restituita in tutta la sua freschezza con dovizia di particolari sia visivi che sonori.
Totoro, lo spirito benevolo del bosco Tzuka che abita nel grande albero di Canfora, non compare immediatamente come personaggio della storia. Il ritardo del suo ingresso al terzo capitolo non è casuale nella sceneggiatura; ci dice infatti che per poter incontrare uno spirito tanto speciale bisogna aver prima colto la magia della natura in ogni dettaglio. Anche una ghianda può racchiudere un segreto e molta bellezza; lo sanno bene i bambini che si riempiono le tasche di foglie, radici, fiori e legnetti. Ma chi lascia cadere semi dal soffitto o li sparge lungo il sentiero del giardino?
La piccola Mei, come Pollicino, segue le tracce e ad un tratto l’invisibile diventa visibile perché se sai apprezzare la bellezza di una ghianda allora puoi vedere anche un piccolo Totoro.
In giapponese tororu designa un personaggio delle fiabe simile ad un troll. Mei, la prima delle sorelle ad incontrare lo spirito dei boschi, per indicare a Satsuki e al babbo lo strano animale pronuncia Totoro anziché tororu.
Ma chi è Totoro?
4 pensieri su “Il mio vicino Totoro #1”
Sono andata a vedere Totoro qualche anno fa, quando è stato distribuito in Italia. All’uscita dal cinema mi sono sentita triste: un Totoro nella mia vita non c’era. Non c’era perché non fa parte della nostra cultura questo approccio leggero e sereno alla natura e alla vita in generale. Leggendo diversi contributi sul film e sulla sua versione italiana, mi hanno colpito le critiche alla traduzione di Totoro come “fantasma” piuttosto che come “spirito” o “divinità” della natura (sto anticipando i temi del seguito del post??? :-))
Ma i traduttori sostengono la correttezza della traduzione, aggiungendo che “tutto l’occidente ha di gran lunga sovrapoetizzato Totoro”. Forse perchè ne ha un grande bisogno?
Aspetto con ansia il #2.
Ciao! io ho noleggiato il dvd di Totoro in biblioteca, su suggerimento di un’amica. Ho un bambino di 4 anni e mezzo, ed ero perplessa, perchè i suoi interessi non mi sembravano andare incontro a questo genere di storie. Tra l’altro, io avevo visto “il castello errante di Howl” dello stesso autore, e non mi era piaciuto per niente. Beh, che dire? la biblioteca riceveva indietro il dvd il giorno della scadenza del prestito, e il giorno dopo me lo riprestava per altri 5 giorni…e così per settimane e settimane. E’ un film magico, che trasmette serenità, e rende visibili le fantasie più belle dei bambini e degli ex bambini che ancora immaginano cose impossibili (l’autobus-gatto! volare abbracciati a un grande animale morbido! far crescere piante in pochi minuti! nascondigli segreti nel bosco…)
Carissime lettrici, rispondo ai vostri due commenti con un unico messaggio perché la parola che vorrei rimandarvi è la stessa: poesia.
Attraverso il linguaggio poetico ognuno di noi crea dentro di sé un proprio universo di colori, immagini, sensazioni. Un haiku può trasmetterci forti emozioni anche se non siamo nati in oriente: potremmo non percepirne davvero l’essenza, appartenendo come genere ad un’altra cultura, ma non per questo rimaniamo estranei alla sua forza racchiusa nella semplicità di poche e precise parole.
Trovo Totoro estremamente poetico. Siamo abituati a tenere la poesia lontana dai nostri bambini perché crediamo che l’elevatezza dei versi possa risultare loro incomprensibile. Invece è proprio la potenza delle immagini che due parole sapientemente accostate sono in grado di evocare a condurre persino i più piccoli sulla strada della bellezza e della verità. Resistere alla musicalità, alla dissonanza o alla rima, al ritmo o alla dolcezza di una poesia è, a volte, quasi impossibile.
Totoro può apparire sotto certi aspetti tutt’altro che poetico, peloso, goffo, grottesco come è; ma sono la tenerezza dell’infanzia e l’incanto della natura che egli incarna così bene a renderlo, per i bambini, attraente e perfettamente leggibile e comprensibile. Per questo motivo i nostri figli e il bambino che alberga ancora in noi vorranno vedere il film di Miyazaki più e più volte. E poco importa se viviamo in occidente e Totoro è un fatasma o uno spirito: egli rimane semplicemente una bellissima metafora d’infanzia.