Essere una libraia-cantastorie significa anche viaggiare.
Viaggiare per lavoro, spostandosi da una scuola all’altra su e giù per la vasta pianura padana, da Mantova a Piacenza, da Ferrara a Bologna. E si va si va, si va per la campagna la mattina presto e si scoprono angoli di mondo meravigliosi che non pensavi così vicini.
E oltre a questo, nelle piccole scuole di campagna, dove i bambini ti abbracciano ancora e ti regalano mazzolini di margherite, trovi altrettanti pezzi di mondo: in una sola classe i nomi ti raccontano di viaggi, di tradizioni, di lavori nei campi, di mani che stringono mani e di appartamenti in condomini fatiscenti.
Nomi che si accompagnano ad occhi scintillanti, di un nero o di un blu che mai credevi potessero essere tanto profondi.
Essere una libraia viaggiante significa farsi un’ora di auto per raccontare ai bambini una fiaba che dura più o meno venti minuti, e vedere quel pezzo di mondo fatto di occhi scintillanti che da est a ovest, da nord a sud, ride a squarciagola per i mutandoni di Zio Lupo. Ah i mutandoni di Zio Lupo! Che invenzione felice! Meglio di tutti i percorsi interculturali che abbia mai visto o fatto.
E viaggiando ricordo di quando avevo 20 anni e non ero ancora libraia, ma maestra, e con la mia minuscola 126 svolgevo alcuni laboratori nelle più piccole scuole della campagna di Modena e Bologna. Quando andavo a S.Martino Spino, percorrevo 80 km quasi tutte le mattine e la campagna all’alba mi accoglieva con la sua nebbia dorata e un battito di grandi ali bianche, un airone. Ricordo la prima volta che andai. Forte dei miei studi chiesi dove si trovasse “La scuola dell’infanzia” e un nonnino a cavallo di una bicicletta azzurra mi rispose:
“Chè al masim gh’è l’esilo”.
E poi all’Esilo arrivai; mi accolse Massimo – un bambino di 5 anni – che mi disse ancora sulla soglia: “Sai, io ammazzo i maiali con Toltello”. Per qualche ragione Massimo non aveva la “C” dura, la sostituiva con la “T”, ma di certo non gli mancava il coraggio. Le scuole di campagna, così sole eppure così autentiche.
Mi piace viaggiare come libraia e cantastorie, mi piace decidere lungo la strada, con tutti quegli occhi nel cuore, di fermarmi per un peregrinaggio tra i papaveri e la camomilla, sotto l’ombra fresca dei filari di pioppi. Anche se la strada resta vicina, il mormorio verde della campagna con i suoi grilli, le sue api, il tremolare delle foglie, il suono ovattato della terra che si sbriciola sotto le scarpe, il fruscio delle spighe, il mormorio della vita oltre il fosso lungo la statale ti riempie le orecchie di pace.
Per agros, attraversare i campi, riposare, immaginare di averli tutti con me quei bambini, con le loro storie e i loro nomi misteriosi.
Per agros, attraversare i campi, per arrivare ad una chiesa e pregare sotto il tempio delle nuvole, tra il rosso della terra e il blu del cielo e sperare, sperare con tutte le forze, in un domani migliore per tutti.
Le fotografie di questo post sono dei campi di papaveri vicino a Palata Pepoli (Bologna) che hanno ispirato i miei pensieri; le poesie sono tratte da Poemario di campo di Alonso Palacios e Leticia Rui Fernandez, edito da Orecchio Acerbo. Le poesie sono tradotte da Francesca Lazzarato.
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