Poemario di campo – Poesia

Poche parole si possono dire della poesia senza sciupare il perfetto silenzio che provoca in noi. Come l’analisi semantica che si faceva a scuola, quando di ogni verso dovevi srotolare la storia, quando ad ogni metafora dovevi svelare il dolore del poeta.È da allora che mi domando cosa dire della poesia, come poter raccontare le incandescenze delle parole, come far emergere le sensazioni che un disegno verbale compone a partire da ciò che conosciamo e che pure d’ora in poi, grazie al poeta ci apparirà nuovo, quasi sfolgorante.

Poemario di campo
Poemario di campo

E oggi che ho tra le mani “Poemario di campo” di Alfonso Palacio e vorrei potervene parlare, mi viene in soccorso García Lorca e la sua poesia che ho conosciuto a quattro anni, grazie a mio padre. Mio padre mi declamava la poesia dei suoi poeti prediletti e mi chiedeva di impararne a memoria alcuni versi. Così ho incontrato García Lorca, sfogliando senza saper leggere due grandi libri dalla copertina rossa (una bellissima edizione della Guanda con la traduzione di Carlo Bo). Di quei libri, più di ogni altra amavo la poesia “Pioppo Vecchio”.

 

Oltre la recinzione del giardino del palazzo condominiale dove abitavo con la mia famiglia, c’era, e c’è tutt’oggi, un gigantesco pioppo, bianco a primavera, verde in estate, giallo in autunno e nero in inverno. E non so se sia perché quando si è piccoli tutto ci sembra enorme, ma quel pioppo oltre la rete era l’imponente nume tutelare dei miei giorni bambini: quando nevicava era il Pioppo ad essere il Signore dell’inverno, quando c’era un temporale era lui a svettare incontro ai fulmini, quando c’era vento era lui che scuoteva i suoi campanelli d’argento ad annunciare il temporale. Gli umori della mia infanzia sono tutti intrappolati tra i suoi rami, custoditi nella sua corteccia, celati colle riserve d’ossigeno tra le sue radici.
E poiché il pioppo era tanto grande, doveva essere senz’altro molto vecchio.

In poemario di campo si legge

In riva al fiume, i pioppi.
Cos’hanno detto al vento,
per incantarlo fino a questo punto?

Ora, pur non citandovi il componimento di García Lorca, ma avendovi parlato del pioppo della mia infanzia, spero di aver provocato in voi qualcosa di simile a ciò che potrebbe succedervi se vi concedeste di leggere, una al giorno come una medicina, le piccole poesie di Alfonso Palacio contenute in “Poemario di campo” (un titolo alquanto bello) tradotte da Francesca Lazzarato. Ecco, forse la poesia, o meglio alcune poesie, potrebbero essere descritte, come l’incontro tra la vostra immaginazione e un ricordo: non importa che sia un ricordo importante e prezioso, potrebbe essere semplicemente qualcosa che avete memorizzato distrattamente, ma che poi la poesia richiama in superficie.
Paul Celan scriveva che “la poesia è un dono fatto agli attenti”, ma forse oggi potrei dire anche ai distratti sensibili, quelle persone che trattengono più bellezza del mondo di quanto siano realmente consapevoli.

Poemario di campo - sovracoperta
Poemario di campo – sovracoperta

Una formica, una farfalla, un erba di campo, i rami del salice, i merli, la margherita… sono sempre sotto al nostro naso, per quanto a forza di vederli, siano diventati invisibili. “Poemario di campo” fa fremere i fili d’erba, li apre come un sipario (e lo stesso fa con la calura estiva della campagna) e vi mostra ciò che non sapevate più guardare con attenzione. Non vi chiede uno sforzo di meraviglia: sono versi piccoli, così come veloci e quasi sfuggenti sono i tocchi del pennello di Leticia Ruifernández. Qui poesia e illustrazione, non vogliono farvi spalancare la bocca, ma far affiorare un ricordo, un pensiero, una sensazione. Un vecchio pioppo, una passeggiata lungo un argine, l’aria piena dello zucheti zucheti (in ricordo di Gesualdo Bufalino) delle cicale.

E più la memoria è semplice, agganciata a qualcosa di effimero pur nella sua potenza d’essere, più le poesie di Alfonso Palacio sapranno riportare alla luce (sinonimo di rinascere) qualcosa che avevate scordato o a lungo avete dimenticato di osservare. Saranno queste minuscole epifanie a rendervi felici nel vostro fazzoletto di giardino, lungo la strada che porta al lavoro e che costeggia un fosso o un guardrail , là dove l’incuria dell’uomo ha lasciato spazio alle erbe vagabonde, che come la poesia, ci ricordano che il nostro ecosistema, esteriore o interiore, è più ricco di quanto pensiamo.