I figli del mastro vetraio – Narrativa

I FIGLI DEL MASTRO VETRAIO

di Maria Gripe, Iperborea 2018.

Qui il nucleo luminoso è quello della fiaba. Un’eco letteraria che si avverte ad ogni passo.

Nella sua struttura ferrea la fiaba non permette azioni arbitrarie: o sei dentro il genere fiabesco o sei fuori. Eppure la fiaba, nelle mani di autori capaci, sa farsi liquida, malleabile, duttile. Giostrarsi tra le sue due strutture, quella rigida e chiusa come un anello e quella morbida dalle lunghe spire, non è da tutti: ci vuole talento, precisione e regola.

Maria Gripe

Maja Stina Walter nacque a Vaxholm in Svezia nel 1923. Si è laureata in giornalismo presso l’università di Stoccolma per poi dedicarsi alla scrittura per bambini e ragazzi. In Svezia è considerata, insieme ad Astrid Lindgren una delle autrici più importanti della nazione. Nel 1946 Maja Stina Walter sposò l’artista (pittore e scenografo) Harald Gripe che in seguito creerà le illustrazioni di copertina (e non solo) per quasi tutti i suoi libri; anzi, si può dire che la carriera di illustratore del marito iniziò proprio grazie al talento di Maja Stina Walter che dopo il matrimonio iniziò a firmarsi Maria Gripe. (Nel romanzo “I figli del mastro vetraio” edito quest’anno per Iperborea la casa editrice sceglie con grande acume letterario di recuperare non solo la bella traduzione di Laura Cangemi, rivista rispetto all’edizione Mondadori nel 1988, ma di tenere le belle incisioni ad acquaforte di Harlad Gripe, piccoli cammei che dipingono personaggi e scenari perfettamente aderenti al tono del romanzo).

Maria Gripe ha vinto i più importanti premi nell’ambito della letteratura per l’infanzia tra cui la Targa Nils Holgersson nel 1963, il Premio Astrid Lindgren nel 1972 e il Premio Hans Christian Andersen nel 1974. E’ morta nel 2007 in una casa di riposo vicino a Stoccolma dopo un lungo periodo di demenza senile.

Ne “I figli del mastro vetraio” ritroviamo un romanzo che riesce ad assorbire in modo mirabile le inquietudini della fiaba senza scadere in una banalizzazione della trama.
Molti sono gli autori che hanno fallito maneggiando la tradizione popolare del racconto di magia, ma Maria Gripe dimostra qui una padronanza assoluta dell’intreccio e un equilibrio che non consente mai al lettore di cadere nel “dejà lu” (il già letto) per dirla con Sartre. Una caratteristica importante questa per un romanzo, ma meno pregnante nella fiaba, dove paradossalmente la prevedibilità degli eventi aumenta il pathos della storia.

I figli del mastro vetraio è  una lettura trasversale capace di affascinare anche il lettore adulto, trascinandolo con sé in una trama che prevede diversi livelli di profondità. Un romanzo scuro, dal cuore di tenebra che, come nella migliore tradizione fiabesca, non risolve tutti i suoi enigmi al sorgere del sole. Il viaggio dell’eroe si compie su più piani: il vetraio, sua moglie, i suoi figli, la strega, l’orchessa, il sovrano, la regina, perfino il corvo, tutti si trovano costretti ad attraversare il bosco.
Un bosco di desideri, di sogni infranti, di ombre perdute.  Il tema dell’ombra non è centrale  solo in questo romanzo, ma in tutta la scrittura di Maria Gripe, caratterizzata da elementi soprannaturali e mistici.

Il tema del doppio, del riflesso e dello specchio sono qui elevati alla massima potenza. La fiaba viene intrecciata con elementi di realismo psicologico senza per questo perdere il suo mistero e  la capacità di dire senza spiegare, di accendere visioni per poi andare subito oltre (pensate a Vassilissa e alle tre paia di mani: lei non chiede e questo deve bastare anche a chi ascolta).
E’ nota l’influenza che scrittori come Edgar Allan Poe, Charlotte ed Emily Bronte e Carl Jonas Almquist ebbero sui romanzi di esordio di Maria Gripe, ma nei Figli del mastro vetraio, la scrittura si fa più matura e la tensione verso l’oscurità, pur restando molto evidente, si inserisce perfettamente all’interno della storia senza mai scadere in un espediente fine a se stesso.

Sapendo quanto la fiaba poco tolleri le digressioni psicologiche, Maria Gripe dipinge scene forti senza cedere alla tentazione di una spiegazione (quando i figli del vetraio si guardano nello specchio e non riescono a scorgersi, Maria Gripe non aggiunge altro, sarà il lettore a trarre le proprie conclusioni).

La maestria di Maria Gripe fa di questo romanzo un piccolo capolavoro di tensione, continuamente in bilico tra il buio e la luce. Ogni personaggio ha in questo romanzo il suo doppio. Svolazza Beltempo, la strega tessitrice, ha nell’orchessa Nana il suo contrappunto; Sofia, la madre dei bambini, è il lato operoso , tormentato e inquieto della Sovrana; Chiara e Pietro, i bambini del vetraio, sono per gli adulti del romanzo la metà di un intero non ancora definito, sono vasi di coccio fragili, sono desideri svuotati, sono bambole; il corvo Savio, fedele compagno di Svolazza Beltempo, ha il suo corrispettivo in Mimì, il pappagallino di Nana. Anche il mastro vetraio ha nel Sovrano un suo doppio formidabile.

In questo scambio continuo di rimandi e di coppie perdute nel bosco della trama (elemento tipico del fiabesco, ripreso anche da Shakespeare in  “Sogno di una notte di mezza estate” o da Italo Calvino ne “La foresta radice-labirinto”) il centro, la chiave di volta è certamente Svolazza Beltempo, la figura più interessante di tutto il libro, la Baba Jagà di Maria Gripe, la portatrice di luce e l’abile tessitrice di tappeti nel cui ordito si possono leggere i destini degli uomini.

E figura altrettanto interessante è il suo corvo Savio che ha perduto l’occhio della notte, l’occhio che gli consente di vedere il male e le ombre.
Animale fortemente connotato a livello simbolico, il corvo porta con sé immagini duali: è emblema di saggezza e preveggenza, ma anche simbolo di morte e distruzione. Le sue peculiarità lo fanno animale solare e notturno al tempo stesso. Nella mitologia norrena, così vicina all’immaginario di questo romanzo e a Maria Gripe, Huginn e Muninn sono i corvi associati al dio Odino. Essi viaggiano per il mondo portando notizie e informazioni al loro padrone. I nomi Huginn e Muninn significano pensiero e memoria.

Pensiero e memoria, oltre a desiderio e perdita, sono gli altri due poli che, in un gioco continuo di attrazione reciproca, orientano la trama del romanzo. Per questo la figura di Svolazza Beltempo è necessaria: Svolazza ha tutte le caratteristiche di Perta, Signora del mondo di sotto, benevola e terribile al contempo. Disturbarla non è bene e va interpellata solo in caso di reale necessità. In Maria Gripe diviene personaggio completo e straordinario, di una potenza quieta, personificazione del mistero e della vita stessa. Attraverso Svolazza Beltempo la fiaba appare nel romanzo “I Figli del mastro vetraio” in tutto il suo splendore.

Infine, se non bastasse questo meraviglioso equilibrio tra due generi così magnificamente intrecciati per invogliarvi a leggere il libro di Maria Gripe, ci si potrebbe a lungo soffermare sulla valenza profonda della città dei desideri e sulle figure dei bambini. Pur essendo stato scritto nel 1964, Maria Gripe ci riporta un’immagine d’infanzia quanto mai attuale: dall’essere voluti per capriccio ad essere affidati ad un’istitutrice capace di annichilire qualsiasi slancio; dall’essere il centro del mondo all’essere dimenticati. Pietro e Chiara si pongono alla nostra attenzione con una forza senza precedenti,
portando nelle nostre vite un’inquietudine meditabonda. Un romanzo capace letteralmente di stregare adulti e bambini lasciando a ciascuno il proprio attraversamento, così come vale per la più antica delle fiabe.

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