Se lo puoi raccontare#4 – Conclusioni – La forza della fiaba

Molti genitori mi chiedono come si possono riavvicinare i bambini alla lettura; le stesse maestre della scuola primaria non fanno mistero di una certa difficoltà quando si tratta di trasmettere l’amore per i libri, e anche se molte tra loro praticano la lettura ad alta voce durante le ore di lezione, questo rituale non produce nei soggetti più resistenti un cambiamento significativo. E pare che oggi sempre più bambini si dimostrino impermeabili al fascino delle storie, perfino quelli che le maestre e i genitori definiscono con orgoglio “i bravi”.

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Giotto

Nella scuola dell’infanzia la predisposizione alla lettura è avvertita con meno premura, ma questo, a mio avviso, è solo un modo diverso di guardare lo stesso problema. La questione della fascinazione alle storie dovrebbe esistere anche alla scuola materna e al nido, soltanto che, poiché il bambino è piccino, non si considera con urgenza il fatto che egli dimostri o meno un amore per i libri. Ma il tempo vola e così quel piccino si ritrova ad avere sei anni e ad approdare alla scuola primaria dove, invece, l’atto di leggere diventa non solo una necessità, ma -purtroppo – un metro di valutazione, un banco di prova su cui testare una certa predisposizione allo studio.

E’ incredibile quante aspettative aleggino intorno al libro! In verità non è così semplice sbrogliare la matassa dei pregiudizi e delle aspirazioni che spesso, in modo del tutto implicito, rendono il bambino-lettore un modello a cui aspirare e a cui fare riferimento. Se prima dei sei anni il bambino si dimostra appassionato alla lettura è una sorta di bambino prodigio, dopo i sei anni il bambino che non legge diventa quasi fonte di imbarazzo; ma il fatto è che entrambi questi atteggiamenti sono deleteri per predisporre i bambini all’incanto delle storie.

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Può anche capitare che lo stesso bambino così amante dei libri, dopo l’ingresso alla scuola primaria, diventi improvvisamente apatico e svogliato quando si tratta di leggere in autonomia. E qui subentra un altro pregiudizio fortissimo, ovvero quello che dopo i sei anni la lettura non è più compito dei genitori -ammesso che se ne siano mai presi carico – ma un’attività, neanche troppo ricreativa, da svolgere in solitaria (di questo abbiamo già parlato qui).

Altro problema verte sulla scelta dei libri e sulle dicotomie, a quanto pare inevitabili, che affliggono maestre e genitori quando si tratta di suggerire testi di lettura ad un allievo della scuola primaria. Le scelte si giocano sempre tra due estremi: libro facile/ libro difficile, libro con figure/libro senza figure, storia semplice/storia complessa, carattere stampatello/carattere corsivo, senza considerare che l’unica dicotomia saggia dovrebbe essere storia bella/storia brutta.

C’è poi l’aspetto relazionale, che solo apparentemente sembra non c’entrare con le storie e con l’avversione alla lettura, ma che invece è, a mio avviso, sintomo di un certo tipo di cultura scolastica; tale aspetto si può riassume nella frase seguente:

“ Nella mia classe ci sono bambini molto dotati e intelligenti, ma sono pessimi nel relazionarsi tra loro”.

Sono parole che mi sento dire spesso dalle maestre quando intraprendo percorsi di narrazione a scuola, e devo dire che mi arrivano a bassa voce, con estremo pudore; una confidenza che mi viene fatta dopo il secondo incontro con la fiaba, quando cioè si iniziano a vedere gli effetti positivi delle storie nel rapporto tra i bambini anche in momenti diversi dalla narrazione.

Questo è il panorama con il quale i librai si trovano a confrontarsi ogni giorno e nel quale io vorrei portare la rivoluzione delle storie e delle fiabe narrate.
E’ chiaro che ci sono sempre le eccezioni e probabilmente chi legge i miei articoli fa già parte di un’isola felice, ma credetemi: il problema dell’allontanamento dalla lettura è un problema che si fa via via più serio, così come del resto è preoccupante il dilagare di libri “a tema” (narrativa compresa), in cui intenti pedagogici  vengono spesso veicolati da un gergo ammiccante e scadente. Purtroppo l’allontanamento dalla lettura e la basa qualità della produzione editoriale, sono due fenomeni intimamente legati ed entrambi hanno il capolinea in un disamore per le storie o nel non saperle più riconoscere.

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Dopo avervi raccontato cosa succede quando narro una fiaba a scuola, sono qui per fare il punto sul perché sia per me così importante tornare ad affascinare i bambini e i ragazzi raccontando loro storie anche senza l’ausilio dei libri.

Per riscoprire l’antica arte del narrare consiglio di partire dalle fiabe che sono la forma orale più antica a cui poter attingere immagini e parole e su cui fare affidamento. In primo luogo perché le fiabe hanno il grande vantaggio di essere memorabili, ovvero si ricordano facilmente, e in secondo luogo perché trasmettono messaggi profondi senza avvalersi di una morale.

Studi prestigiosi (da Propp a Calvino, da Almodovar ad Afanasiev) hanno messo in luce come i repertori del fiabesco delle varie parti del mondo, condividano circa cinquanta schemi (o plot) su cui le diverse tradizioni orali hanno poi articolato innumerevoli trame, dalle più semplici alle più complesse, dando vita ad un catalogo infinito di possibilità, o come direbbe Calvino, di destini umani.

La struttura del fiabesco è dunque precisa, chiara, e prevede

“un conflitto iniziale importante, uno sviluppo sotto forma d’intreccio e un finale coerente”

(da un’intervista a Rodriguez Almodovar, nella traduzione di Lisa Topi).

A forza di sentir narrare fiabe ben scritte – o meglio – ben tradotte (dato che la fiaba d’autore non è il porto migliore da cui salpare quando si decide di riappropriarsi della narrazione), il bambino inizia a modellare e a costruire una propria struttura mentale rigorosa, un impianto logico così efficace da diventare a sua volta uno schema di riferimento interno.

Come ben spiega Almodovar, la struttura della fiaba facilita la costruzione di un’architettura mentale del bambino, mettendo a punto la capacità di comprendere. Con il tempo, grazie alla pratica della narrazione sia l’ascoltatore che il narratore, diventano capaci non solo di produrre testi scritti coerenti e musicali, o di discorrere con maggiore chiarezza e facilità, ma sviluppano un acuto senso critico nei confronti della lingua, riconoscendosi lettori competenti, in grado di discernere una buona scrittura da una prosa scadente.

Dice Almodovar:

Oltre che ben scritta, la fiaba bella apporta un valore fondamentale. Il valore estetico della vita e della vita letteraria non si acquisisce da un giorno all’altro, ma è una costruzione che richiede pazienza perché si radichi profondamente in noi e possa germogliare il desiderio della buona letteratura […].

 

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La capacità di arricchire contemporaneamente narratore e ascoltatore è una delle caratteristiche più importanti e straordinarie della fiaba, e si esplica con maggiore forza quando le parole si articolano nella nostra mente e poi sotto la nostra lingua senza l’ausilio del libro. La fiaba pone entrambi i soggetti della comunicazione, parlante e ricevente, sullo stesso piano, e questo tipo di empatia, dovuta ai contenuti profondi della fiaba, si rafforza maggiormente quando il narratore consolida un legame visivo e affettivo con l’ascoltatore (il libro può essere un potente medium culturale quando si tratta di un romanzo, di un albo, di un racconto… ma nel caso della fiaba diventa uno schermo, un muro che, ovviamente, nella tradizione orale non è mai esistito).

Per spiegarvi cosa intendo quando dico che l’empatia tra chi narra e chi ascolta nella fiaba è dovuta ai contenuti profondi della fiaba stessa, metterò il racconto popolare a confronto con il genere favola avvalendomi di alcuni spunti di riflessione emersi durante una lezione di Elisabetta Cremaschi durante una delle 80 lune a Radice-Labirinto.

La fiaba non avendo morale non ha nessun intento prescrittivo, mentre la favola ha sempre un fine moralistico. Se qualcuno vuole insegnare qualcosa a qualcun altro si pone necessariamente – anche se con tutto il garbo e la buona grazia di cui è capace – in una posizione di superiorità. C’è un dislivello tra l’agente e il ricevente dovuto al contenuto della storia narrata. La fiaba invece diventa un’esperienza potente sia per chi narra sia per chi ascolta: entrambi i soggetti devono poterla vedere per poterla abitare e abitandola entrambi esperiscono, ogni volta, l’attraversamento del bosco. Questa uguaglianza, rende la narrazione di una fiaba un momento di grande condivisione, e riesce a creare un’affettività profondissima capace di sprigionare dalle parole l’energia e il calore del focolare.

Non è un caso se i bambini dopo una narrazione a scuola sono desiderosi di condividere con me parte della loro vita (ne parlo qui).

Il canale affettivo di cui parla Daniel Pennac e che è l’unico attraverso il quale possiamo sperare di far passare la conoscenza, si instaura subito con la fiaba, a patto che il narratore sia vero, credibile e autentico nelle sue intenzioni e nelle sue emozioni (per approfondire il ruolo del narratore vi rimando alla lettura dell’articolo La voce della fiaba).

Sempre Almodovar:

Una volta esistevano decine di fiabe da raccontare nelle veglie domestiche e ogni famiglia aveva la sua preferita che aiutava a rafforzare il senso del gruppo.

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La condivisione di una fiaba in un gruppo di bambini non solo rafforza l’empatia tra gli ascoltatori, ma li introduce alla poetica dell’incantamento, unica strada possibile per approdare poi con passione e desiderio alla lettura.

La fiaba sospende narratore e ascoltatore in un tempo senza tempo, non ha né qui né ora e questo permette un’immersione totale nella trama. Nella bidimensionalità del fiabesco, la prospettiva e la profondità di campo sono a carico della coscienza e della comprensione di chi narra e di chi ascolta.

Mi piace dire che raccontare una fiaba è come trovarsi davanti agli affreschi di Giotto: l’essenzialità della pittura arcaica trova in questo straordinario pittore una forza nuova; nella prospettiva primigenia di Giotto sentiamo ancora la forza e l’immediatezza della bidimensionalità delle pitture rupestri, egizie, micenee… mentre qualcosa di nuovo e di più complesso emerge potentemente dalle forme e dai colori, come se in quegli affreschi fosse nascosto il mistero dell’arte che verrà.

Da dove viene questa sensazione di incontenibile stupore mentre ci immergiamo nella Cappella degli Scrovegni a Padova? Difficile a dirsi.

I colori sono elementari (blu, rosso, verde, terra bruciata, oro), il paesaggio è evocato nel suo ferreo rigore di linee e materie – qui un albero, là un promontorio – , le città sono condensate in pochi edifici, i gesti dei personaggi decisi e inequivocabili. Le città potrebbero essere tutte le città, le montagne qualsiasi montagna, proprio come nelle fiabe. Giotto condensa le sue visioni in quadri così vividi e chiari che perfino un bambino riesce a leggere le sue storie dipinte, non le contestualizza certo, ma ne deduce la trama e le emozioni.

Ecco la fiaba fa lo stesso, nella sua sospensione, nel suo dichiarare un altrove, nella sua potente bidimensionalità, parla a tutti noi.

Ma cosa si intende per bidimensionalità della fiaba?

I protagonisti non vengono mai descritti a livello psicologico, certamente provano emozioni, ma questo non inficia sulla loro universalità, essi semplicemente sono: sono Re e Ragine, Principi e Principesse, Falegnami e Mugnai, Bambini e Vecchi; tutti perdono il nome e se lo conservano sono nomi così evocativi da diventare immediatamente simbolici: Hansel e Gretel, Nenello e Nenella, Aliuska e Alioska, Vassilissa, Baba Jaga, Cenerentola, Pollicino, Pulgarcito …

I luoghi poi non sono nessun luogo, quasi fossero quinte teatrali tra cui muovere i personaggi. Anche i luoghi non hanno nome: sono castelli, boschi, paesi, torri, campi, mulini…

I personaggi e i paesaggi delle fiabe dunque, permettono al narratore e al bambino di identificarsi, di attraversare il bosco, di vivere insieme la fiaba, sapendo che dalla sospensione si farà ritorno alla realtà, con il Boo! di un finale inaspettato ( “e poi la mia scarpetta di vetro urtò contro la pietra e fece crac”) o con un lieto fine consolatore (“e vissero per sempre felici”). La fiaba grazie a questi espedienti, al pari degli affreschi di Giotto parla ancora a tutti, e tutti al suo cospetto siamo uguali, tutti siamo intenti a combattere le nostre battaglie.

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Come diceva Gianni Rodari, in tempo di crisi, di inganni e di tiranni (la televisione è di certo un despota), di disinnamoramento per l’arte, la cultura e la politica, tornare alla semplicità è fondamentale.

La semplicità della fiaba non vi tragga però in inganno, essa racchiude, in poche parole, tutto il sapere umano, è il condensato delle esperienze, delle fatiche, delle prove, dei sogni, dei desideri, delle emozioni e dei sentimenti dell’umanità tutta, senza distinzioni di razza, di ceto o di religione. Diffidate dunque dalle versioni edulcorate delle fiabe, dalla loro epurazione o eccessiva semplificazione in favore di un politicamente corretto che non rende ai bambini nessun favore.

Dice ancora Rodriguez Almodovar:

Non disprezziamo mai l’intelligenza dei bambini. I bambini devono pervenire a una buona strutturazione mentale ed è necessario che siano loro stessi ad interpretare e dedurre. La morale della fiaba non serve. Limitiamoci a raccontare la fiaba e basta.

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Narrare una fiaba oggi significa infondere nei bambini la speranza del cambiamento perché la fiaba ti libera e ti dice che diventare te stesso, attraverso prove e difficoltà, è possibile. Sia il re che il povero possono cambiare il loro destino, cadere in disgrazia o ritrovarsi felici e innamorati; ma nulla si può ottenere senza lottare o senza compiere delle scelte.

E se questi sono i valori che la fiaba porta con sé pensate che fascinazione per il bambino ascoltare qualcuno che gli parla di tutto questo narrando per lui, ponendosi sullo stesso piano.

Ascoltare qualcuno che narra per te, che ti guarda negli occhi mentre ti conduce sul sentiero dell’incantamento, produce un’empatia fortissima.
La narrazione riconduce il bambino alle storie, gli fornisce gli strumenti per andare incontro alla vita e incontro all’altro (quell’altro che ora ascolta accanto a lui e attraversa al suo fianco il medesimo bosco, che trema, soffre e gioisce per le stesse emozioni), quell’altro che è anche il narratore, non più l’insegnante, ma una guida che si prende il rischio di compiere il viaggio insieme al bambino, che come lui riemergerà dalla fiaba cambiato. Un narratore che non è un precettore, che non deve insegnare nulla perché nelle belle storie c’è già tutto quello che serve.

Scrive Daniel Pennac:

La pedagogia è una branchia della drammaturgia: la materia insegnata deve essere incarnata, personificata. La maestra sceglie di guardare negli occhi il bambino a cui si rivolge. In questo modo catturerà anche quegli allievi che hanno bisogno di passare per una fase di seduzione.

Leggiamo perché siamo animali mitologici. Perché non ci limitiamo ai saggi e invece scegliamo di leggere romanzi? Perché abbiamo bisogno di metafore, la razionalità da sola non basta. Il bisogno di leggere non è solo intrattenimento, ma traduce un bisogno metafisico, va a colmare un vuoto.
[Da “Una lezione d’ignoranza”]

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Il narratore non è un drammaturgo in senso stretto, egli non deve interpretare, ma abitare la fiaba, vederla rimanendo se stesso, come la nonna che racconta vicino al focolare e che non ne sa nulla di teatro e di “letture animate”.

Restando noi stessi e riappropriandoci delle parole, di un lessico non più povero me splendente, di uno sguardo che interroga e si interroga specchiandosi nello sguardo dell’altro, ricondurremo i bambini alla lettura, perché la lettura è principalmente incantamento, sospensione, un catalogo di destini, il vivere avventure attraverso la vita di un altro e in quell’esperienza crescere.

Se ci saremo allenati con le fiabe e le avremo narrate tutti i giorni, potremmo approdare ai racconti e all’epica, raccontare l’Odissea passeggiando tra i banchi. Il narratore e l’ascoltatore allenano le parole giorno dopo giorno, strutturano il loro pensiero e contemporaneamente il loro vocabolario.

E quando il bambini e la maestra si saranno appassionati alle storie, quando la musica delle belle parole sarà entrata intimamente dentro di loro, nessun libro scritto male potrà più ingannarli, nessun albo pedagogico potrà più interessarli e finalmente, superando ogni dicotomia, entrambi ciederanno al loro libraio un libro che contenga una storia che si possa raccontare.

E con quel libro e la loro voce conquisteranno il mondo.

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