Lo stereotipo è qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, non acquisita sulla base di un’esperienza diretta. Lo stereotipo prescinde dalla valutazione dei singoli casi, su persone o gruppi sociali.
Nel corso del mese di giugno mi è capitato di discutere, su piattaforme virtuali, di due fatti apparentemente lontani tra loro che tuttavia hanno mosso in me i medesimi pensieri. Non volendo lasciare a strumenti di poca memoria le mie riflessioni, ho ritenuto opportuno dedicare al tema dello stereotipo un articolo diviso in due parti, ciascuna riferita ai fatti in oggetto, ovvero l’uscita del nuovo libro della raccolta Mondadori sulle fiabe italiane di Italo Calvino – Fiabe per le bambine – e la messa al bando da parte del sindaco di Venezia, di alcuni albi ritenuti pericolosi nel loro educare i bambini al rispetto della diversità.
Dalla parte delle bambine
E’ disponibile in libreria da poche settimane il nuovo nato della collana dedicata alle fiabe italiane di Italo Calvino edita dalla Mondadori; dopo Fiabe per i più piccini, Fiabe da far paura – appena appena, non tanto, Fiabe di mare, Fiabe tutte da ridere, Fiabe di animali magici e Fiabe un po’ da piangere, Fiabe di oggetti magici esce Fiabe per le bambine.
Ogni libro raccoglie e sceglie dal vasto e importante lavoro di Calvino sul repertorio fiabesco popolare italiano, fiabe simili tra loro per contenuti e temi, raggruppandole sotto un titolo comune. In fiabe di mare per esempio si trovano racconti come “Il principe granchio”, “L’uomo verde d’alghe”, “Un bastimento carico di…” ecc.
Fin qui nulla da eccepire, a parte il fatto che alcuni titoli della collana potevano essere studiati con maggior cura (trovo sgradevole dal punto di vista della lingua italiana, la parentesi sotto Fiabe da far paura che riporta la specifica “appena appena, non tanto”; o i titoli Fiabe un po’ da piangere e Fiabe tutte da ridere, che fanno riferimento a modi di dire, a mio avviso, un po’ troppo gergali).
Finché tuttavia si tratta solo di fare il punto ad un editore sulla mancata raffinatezza con cui appone i titoli alla propria collana, nessuna voce si leva nel cielo; ma quando, sempre quello stesso editore, si permette di pubblicare un titolo come “Fiabe per le bambine”, allora un intero popolo si mobilita e si indigna in nome di una evidente discriminazione di genere.
E’ bastato che una singola persona commentasse “Sono allibita” riportando su una piattaforma virtuale la copertina del libro, per scatenare una tempesta di proteste contro la casa editrice. Com’è possibile che nel 2015 si possa editare un libro dedicato esclusivamente alle bambine? E poi: come gli viene in mente di ritrarre in copertina una bambina vestita di rosa e con in più il grembiulino? Così facendo nessun bambino maschio leggerà mai quel libro e le bambine si sentiranno ghettizzate!
Vi devo confessare che la persona più allibita, in tutta questa vicenda, forse sono io, ma non per le stesse ragioni della folla inferocita.
La battaglia contro la discriminazione di genere rischia di diventare essa stessa promotrice di stereotipi. Da quando esistono le fiabe – e sono così antiche che nessuno sa dire con precisione da quanto – esiste anche una sapienza popolare dedicata al femminile. Ci sono molte interpretazioni sul divenire della tradizione fiabesca nelle diverse culture, una delle quali indica i riti di iniziazione dei fanciulli e delle fanciulle come possibili antesignani di un racconto orale volto a sopperire un certo modus operandi divenuto troppo pericoloso e primitivo. Attraverso la fiaba dunque, il bambino, al pari dell’adulto, poteva ripercorrere, senza pericolo il bosco, incontrare le figure dell’ombra, agire per il bene (o per il male) e accumulare esperienza.
Poiché il maschio è diverso dalla femmina (e non stiamo parlando di diritti, ma di fattori biologici) anche le fiabe potevano rivolgersi all’uno o all’altra andando a toccare più o meno nel profondo, attraverso trame e personaggi specifici, le radici dell’anima femminile e maschile.
Questo non significa che le fiabe che oggi la Mondadori pubblica con il titolo “per le bambine” non possano essere ascoltate da un bambino maschio, ma semplicemente che nella sua collana, l’editore dedica un libro alle bambine ripescando alcune tra le più belle fiabe “al femminile” (vi invito a scorrere i titoli dell’indice) che Calvino ha tradotto dalla tradizione popolare italiana.
Alcuni invece hanno scritto che con questa operazione l’editore esclude dalla lettura i bambini maschi perché in mano alle persone “sbagliate” o a librai incompetenti, questo libro non verrà mai proposto ad un pubblico diverso da quello femminile. Partendo dal presupposto che ogni libro o albo illustrato è libero di capitare nelle mani di chiunque, sbagliate o giuste che siano, e che saranno sempre le storie a lavorare in modo insondabile nel cuore del lettore, se “Fiabe per le bambine” non dovesse essere letto da un pubblico maschile io non ne vedo il problema.
Mi hanno detto che faccio presto a parlare io che curo i miei lettori uno ad uno, ma vi confesso, senza nessuna difficoltà, che un libro come “Principesse” di Rebecca Deutremer non lo consiglio mai come regalo per un bambino maschio.
Volete dunque tacciarmi di sessismo? Io sono convinta che ci sia un segno, una traccia profonda, sia culturale che animica, in cui il femminile si esprime con maggiore forza; e non voglio dire che le donne devono stare ai fornelli e che i bambini maschi non possono giocare con i tegamini, ma che non ci può essere, in nome di una parità di diritti, un annullamento delle caratteristiche peculiari della sessualità maschile e femminile. E so bene che le donne sono state a lungo sottomesse e che i soprusi non sono certo finiti, né in Italia né in altre parti del mondo, ma non sarà certo non riconoscendo le radici del femminile che ritroveremo la pace e l’uguaglianza.
“Fiabe per bambine” è un libro dedicato alle bambine, che c’è di male in questo? Non è certo il primo libro che potete trovare in libreria dedicato alle giovani lettrici. La collana Sirene, intorno alla quale le librerie indipendenti hanno organizzato quest’anno diverse iniziative, nasce per dare voce, grazie alla penna di bravissime scrittrici, a figure femminili di spicco in ogni ambito culturale: Virginia Woolf, Peggy Gugheneim, Marie Curie, Isadora Duncan, Maria Montessori, Frida Calo, le donne della Bibbia e quelle dei miti greci. C’è poi la serie delle Edizioni EL “Belle, astute e coraggiose” in cui si narrano le vicende di eroine delle fiabe. Mi pare che nessuno abbia protestato allora, e non vorrei pensare che questo sia dovuto all’orgoglio che si prova mentre si sfogliano le pagine delle Sirene o, peggio ancora, perché gli aggettivi astute e coraggiose vi hanno abbindolato.
Nel caso invece fosse proprio così, invito i lettori a riflettere che le protagoniste delle fiabe di Calvino non hanno meno valore delle donne in carne ed ossa della collana Sirene e sono talmente vere, e davvero così coraggiose, che non hanno bisogno di essere definite belle e astute da nessuno: esse sono e sono da sempre e questo ci deve bastare. Rosmarina, Giricoccola, Perina e le altre, come Vassilissa della fiabe russe o Rosarossa del repertorio folklorico tedesco, affrontano il destino senza esitare, vanno incontro alla vita senza sapere di essere coraggiose, belle o astute.
Vorrei a questo punto parlarvi di un tema in particolare caro alle fiabe al femminile che spesso, come libraia, mi trovo ad affrontare con alcuni lettori diffidenti verso principi e principesse. Potrà sembravi che stia uscendo dal seminato, ma se avrete la pazienza di seguirmi, vi assicuro che reincontreremo il sentiero poco più avanti.
Molti pensano che le fiabe in cui delle fanciulle si sposano con un bel principe, siano fuorvianti per le bambine perché non può essere il matrimonio l’unico fine di una donna. Ci sono studi splendidi, da Frazer a Zypes, che provano quanto questa interpretazione sia non solo falsa, ma fin troppo ingenua. Un tempo il matrimonio era tutto fuorché d’amore. Le bambine venivano date in spose molto presto e non gli veniva certamente chiesto se il futuro marito fosse o meno di loro gradimento. Il fatto che le fanciulle delle fiabe si sposino per amore è davvero rivoluzionario e credo di non sbagliarmi dicendo che il valore di un’unione felice sia, se voluta, auspicabile ancora oggi. Siamo tutte d’accordo che una donna può anche non sposarsi – e mentre lo specifico mi sento perfino un po’ ridicola pensando che se ora non lo dicessi avrei addosso l’ira funesta delle moderne suffragette – ma le fiabe non raccontano futuri possibili, sono cataloghi dei destini umani, come dice Calvino e hanno, come genere letterario, regole e strutture ben precise. Se siamo così estremiste da credere che la lettura di una fiaba “al femminile” possa deviare o illudere una bambina, e se non capiamo che il valore aggiunto che ogni racconto porta con sé è imprevedibile e misterioso per ciascuno di noi, allora non solo il libro “Fiabe per le bambine” non fa per noi, ma l’intero repertorio fiabesco.
Calvino dice che le fiabe sono vere e scrive:
“…sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminìo delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza ed al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste…”
Ho fatto l’esempio del matrimonio nelle fiabe per due motivi: il primo è che chi ha mosso critiche al libro della collana Mondadori lo ha fatto avvalendosi anche del dato che la bambina in copertina fosse vestita di rosa e portasse il grembiule. Questo genere di osservazione, cioè che il vestito sia rosa è, a mio avviso, inutile e banale, quanto quella di chi obbietta che le bambine nelle fiabe non si debbano sposare con il principe azzurro. E qui specifico, sempre in merito all’abbigliamento, che molto probabilmente nel mondo contadino in cui le fiabe di Calvino sono ambientate, le bambine avevano perfino il fazzoletto in testa; in ogni caso nessuno ha notato che la bambina, vestita di rosa, sia stata disegnata da Giulia Tomai arrampicata su un albero cosa che, se vogliamo restare dentro lo stereotipo (secondo il ragionamento dei detrattori del libro), è roba da maschi… e poi mi chiedo: qualora la bambina indossasse una salopette che cosa avremmo ottenuto? Pensate invece a quanto sia efficace la mamma in salopette di Antony Brown nell’ultima tavola del Maialibro! E pensate a quante bambine pur avendo un armadio variopinto amano il rosa! E’ chiaro che nella nostra cultura il rosa è da femmine e l’azzurro da maschi, ma io mi chiedo se la cosa sia davvero così grave. Penso ai neonati nel reparto maternità di un ospedale: difficilmente senza quella cuffietta rosa e azzurra riusciremo a prima vista a distinguere una bambina da un bambino. Ogni cultura ha assegnato ai colori un significato preciso (vi invito a leggere “Il piccolo libro dei colori” di Michel Pastoureau edito da Ponte alle Grazie), che poi il rosa sia diventato l’anti vessillo di una lotta di discriminazione di genere potrebbe creare molta confusione in tutte quelle bambine che, recependo fin da piccole che il rosa è un colore femminile, si sentono giudicate per questo. Forse varrebbe invece la pena capire quando il rosa diventa davvero il pretesto per portare un messaggio politico; solo applicandoci ai fatti con mente lucida, resteremo vigili senza cadere negli estremismi delle lotte “contro”, e non ci illuderemo di poter sradicare tanto velocemente un fenomeno culturale come quello della percezione psicologica di un colore (leggendo il libro di Pastoureau scoprirete cose molto interessanti riguardo al blu o al nero).
Il secondo motivo per cui cito il disappunto di molti clienti della libreria per i matrimoni catartici delle fiabe, è che spesso nella lotta agli stereotipi si rischia di costruirne e alimentarne altri, e mentre ci accaniamo per difendere a spada tratta i diritti delle bambine ci sfuggono i meccanismi subdoli – e ahimè molto più efficaci perché invisibili – con cui davvero nella letteratura per l’infanzia si veicola una pericolosa discriminazione di genere.
Avete mai notato, per esempio, come fin dai libri cartonati gli animali maschi e e quelli femmina vengono rappresentati? Il cucciolo maschio è quasi sempre in movimento: corre, salta, cerca di afferrare qualcosa, mentre il cucciolo femmina è statico, ben agghindato e ammiccante. O ancora come in certi albi, le avventure con protagonisti maschili, terminano in una casa dove c’è una mamma o in generale una femmina, che accoglie l’eroe con una cioccolata calda o simili? E se fosse una femmina a compiere l’atto eroico e il maschio ad aspettarla a casa, come la accoglierebbe lui? Di certo non desidereremmo vedere l’uno e l’altra che si scimmiottano a vicenda! L’autore o l’illustratore illuminato farà passare un messaggio nuovo senza spiattellarcelo sul piatto. E’ nell’invisibile, nella cura, nelle storie che sembrano esistere da sempre, la vera svolta epocale. E questo lo sa bene lo stereotipo che va spesso a rifugiarsi nei luoghi più dimessi e in ombra. Non lo staneremo di certo lottando contro un libro dedicato alle bambine! Lui non è lì. Chi vede l’inganno in “Fiabe per le bambine” sta solo proiettando il suo disappunto e le sue energie sulla cosa sbagliata e ha perso la bussola che sempre guida un pensiero lucido e libero. Vi hanno tratto in inganno, perché lo stereotipo che sembra palesarsi alla luce del sole è uno specchietto per le allodole e spesso non è nemmeno uno stereotipo come nel caso del libro di fiabe di Calvino.
Pensate alla lista dei libri censurati dal sindaco di Venezia, di cui parlerò nel prossimo articolo: sono i libri apparentemente più lontani dall’argomento a spaventare tanto. Come non sentire il potere rivoluzionario di “Piccolo blu e Piccolo giallo” di Leo Lionni? Che parli o meno di famiglie alternative, il suo messaggio di uguaglianza è così potente ed espresso con così tanta grazia e semplicità da arrivare dritto al cuore di tutti. Un libro come questo è dunque molto pericoloso per chi pensa che “dividi et impera” sia un motto dell’Impero Romano valido ancora. Più ci dividono, e lo stereotipo è maestro in questa specialità, più siamo domabili; ma riconoscere che delle fiabe al femminile siano potenti mezzi di libertà e capire che non c’è nulla di male nel dedicare una cosa tanto bella alle bambine del 2000 (che si spera non diventeranno le ragazzine svenevoli al concerto di una Boy Band – i principi azzurri contemporanei – ma si conquisteranno il fuoco sacro della conoscenza affrontando la strada con coraggio), allora avremo vinto la nostra battaglia contro qualsiasi stereotipo di genere.
Le illustrazioni pubblicate nell’articolo sono di Giulia Tomai.
6 pensieri su “Sullo stereotipo #1”
Complimenti per questo articolo, l’ho trovato molto interessante. In effetti sugli stereotipi di genere si sta creando una sorta di atteggiamento paranoico. Condivido l’idea che il maschile e il femminile non possano diventare dei tabù.
Grazie quindi per queste analisi, sempre illuminanti.
Grazie a te cara Francesca, sapere che posso darvi qualche spunto di riflessione è per me di grande stimolo.
Che dire Alessia.
Sei sempre in grado di tradurre perfettamente i miei pensieri.
Articolo bellissimo, intelligente ed equilibrato.
Grazie.
Grazie per il tuo affetto, cara Chantal.
Alessia, sei caduta nello stesso errore di Michele Serra. Nessuno ha compilato una lista per il sindaco di Venezia. Uno degli elementi che aggravano questa decisione scellerata è che si innesta su un progetto educatico (Leggere senza stereotipi) che ha prodotto una bibliografia e un corso di formazione. IL comune di Venezia (precedente giunta) ha fatto partecipare a questo corso di formazione gli edicatori di nidi e materne e, al termine del corso, ha messo loro a disposizione im libri della bibliografia. La lista non è quindi la scelta volitiva del sindaco o di qualche suo accolito, ma uno strumento di formazione. Quindi, aver individuato questi libri come bersaglio ha una duplice valenza negativa: la censura in quanto tale e l’azione di blocco di un progetto educativo avviato. Scusa la pignoleria, ma intorno alla vicenza veneziana si leggono troppe imprecisioni.
Caro Paolo,
ti ringrazio per la tua segnalazione. In effetti ho letto molto riguardo a questa vicenda, ma non sono riuscita a risalire oltre la polemica attuale. Ho fatto tesoro dei vostri articoli sul blog dei Topipittori (che, mannaggia!,mi erano sfuggiti) e ho corretto nell’articolo la frase incriminata.
Un saluto affettuoso.